Oggi vi portiamo in due luoghi di Cosenza avvolti nel mistero e nel “silenzio”, ma prima di iniziare vogliamo che chiunque legga possa capire l’importanza storica di questi siti. Rispettiamo i morti e soprattutto la loro storia, e allo stesso tempo vogliamo che queste nozioni possano essere di tutti.
Il putridarium è un ambiente funerario “provvisorio”, in genere sotterraneo (tipicamente una cripta sotto il pavimento delle chiese), dove erano presenti le cosiddette tombe a scolatoio, delle piccole cavità o nicchie di pietra a forma di sedia, poste lungo le pareti, in cui si appoggiava il cadavere in posizione fetale per fargli
perdere i liquidi: una sorta di mummificazione naturale che ha dato origine alla suddetta espressione napoletana “puozze sculà”. Questi sedili avevano un foro centrale e un vaso sottostante per la raccolta dei liquidi cadaverici, oppure questo vaso mancava e i liquidi venivano concentrati in una piccola fossa posta al centro del pavimento della cripta o fatti defluire in appositi canali verso i fiumi. Una volta terminato il processo di putrefazione dei corpi, gli scheletri venivano lavati e trasferiti nell’apposito ossario o lasciati seduti. L’usanza dei “putridaria” era diffusa principalmente nel Regno delle Due Sicilie ove erano noti anche come “camere di mummificazione” o “colatoi a seduta” per distinguerli dai colatoi orizzontali, e soprattutto nel napoletano come “cantarelle”. Nonostante fosse osteggiata dalla Chiesa in seguito a precise disposizioni del Concilio di Trento (1563), questa pratica degli scolatoi per la decomposizione e scheletrizzazione dei cadaveri rimase in uso nei secoli XVIII-XIX soprattutto per le élites sia laiche che ecclesiastiche. Scomparve definitivamente solo all’inizio del XX secolo con l’entrata in vigore di rigorose norme igienico-sanitarie. Il significato religioso di questa operazione lugubre ed impressionante è molto importante: il processo di disfacimento della carne del cadavere (ritenuto elemento contaminante) fino alla completa liberazione delle ossa (ritenute simbolo della purezza) aveva lo scopo di rappresentare visivamente le varie fasi della purificazione affrontate dall’anima del defunto nel suo viaggio verso l’eternità. Perciò queste fasi erano accompagnate dalle continue preghiere dei confratelli e delle consorelle. La vista di quei corpi doveva servire loro per meditare sulla fragilità della carne e sulla pochezza della vita terrena. Questa ritualità è ricollegabile per certi aspetti all’antica credenza della “doppia morte” e alla pratica della “doppia sepoltura”, come descritto in maniera superba dal gesuita e scrittore settecentesco Joseph-François Lafitau: «Per la maggior parte dei popoli selvaggi i corpi morti non sono altro che un deposito messo temporaneamente dentro un sepolcro. Dopo un certo lasso di tempo vengono celebrati nuovi funerali attraverso i quali, con nuovi riti funebri, si estingue il debito dovuto ai defunti». La nostra immaginazione, visitando oggi questi ipogei, stenta a ricostruire che cosa fossero quelle cripte, che cosa vedessero i frati che vi scendevano, che aria nauseabonda vi si respirasse. Ma bisogna riflettere sul rapporto del tutto diverso che in quei lontani secoli si aveva con la morte, specialmente negli ambienti monastici, al contrario di oggi in cui tutto ciò che ha a che fare con la morte viene rimosso o occultato. Questa doveva essere la realtà anche delle cripte delle chiese del SS. Salvatore e di San Domenico a Cosenza, dove oggi sono visibili solo i sedili di pietra. Alla cripta della chiesa del SS. Salvatore, fondata nel 1565 dall’arcivescovo Tommaso Telesio, fratello del filosofo Bernardino, e donata originariamente all’Arciconfraternita dei Sarti, avente come patrono Sant’Omobono di Cremona e successivamente alla comunità italo-albanese (Arbëreshë) di rito bizantino-greco, si accede tramite una scalinata presente nel corridoio principale chiusa da un vetro di protezione. Nell’ambiente ipogeo troviamo due vani: nel primo, a forma di cupola, gli scolatoi sono ricavati nella pietra tutto intorno alle pareti mentre nel secondo troviamo degli archi e le scatole dove sono riposte le ossa ritrovate. Nella chiesa di San Domenico, edificata tra il 1441 e il 1468 per decisione della famiglia Sanseverino e oggi uno dei monumenti simbolo della città, esiste una cappella ottagonale sottostante la cupola barocca che spicca nei cieli della città, dalla storia controversa in quanto molti pensano che sia stata costruita sui resti di un edificio più antico di origine templare, dalla simbologia tipica di quest’ordine. Ma la cosa eccezionale è che sotto questa cappella è presente un vano buio e interrato, in cui si accede tramite un’apertura nella parete, contenente una cripta a forma di cupola con in fondo i caratteristici scolatoi a forma di scranno in muratura, dove i corpi dei frati venivano sistemati. Questi due ambienti funerari a Cosenza dal fascino misterioso, caratteristico, forse lugubre ma importanti nella nostra cultura sono davvero poco conosciuti e non sono nemmeno inseriti negli elenchi dei “putridarium” scoperti in Italia come per esempio quelli nei conventi domenicani di Soriano e Lamezia Terme o quello nella chiesa dei morti a Pizzo. Come sempre noi speriamo nella buona volontà degli storici, delle Istituzioni religiose e della Soprintendenza per la valorizzazione di questi luoghi oggi dimenticati ma di forte impatto spirituale, mistico e storico. Ringraziamo per la disponibilità e per l’accoglienza Papas Pietro Lanza, vicario dell’Eparchia di Lungro, e i frati residenti nel complesso di San Domenico.
Alfonso Morelli team Mistery Hunters