I PRIMI NEANDERTHAL ERANO ROMANI

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Viveva a Roma la più antica comunità di Neanderthal di cui sia mai stata trovata traccia diretta in Europa. Lo dimostra uno studio condotto dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), in collaborazione con i paleontologi delle Università della Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre, e dell’Università americana del Wisconsin-Madison, su resti di ossa animali, su alcuni strumenti litici e su due crani appartenenti all’uomo di Neanderthal, il primo rinvenuto nel 1929 dal duca Mario Grazioli, proprietario della cava di ghiaia di Sacco Pastore, località della campagna romana sulla riva sinistra del fiume Aniene, il secondo nel 1935, nella stessa località, dai paleoantropologi Alberto Carlo Blanc e Henri Breuil, conservati presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma.

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Alberto Carlo Blanc e Henri Breuil.
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Crani di Sacco Pastore

I risultati, pubblicati sulla rivista Plos One (clicca qui per leggere l’intero studio), aprono nuovi scenari sulle tappe dell’evoluzione dell’uomo e sui flussi migratori attraverso il Vecchio Continente.  La conferma è venuta dal riesame dei resti fossili di daini, ritrovati insieme ai resti umani, appartenenti alla sottospecie Dama dama tiberina, caratteristici dello stadio isotopico tra 8.5 e 7, che equivale ad un intervallo di tempo ben definito tra 295mila e 245mila anni fa. I dati faunistici, uniti agli strumenti in selce dell’industria litica preistorica ritrovati in quattro località vicine a Sacco Pastore (Ponte Mammolo, Sedia del Diavolo, Casal de’ Pazzi e Monte delle Gioie), confermano che quel territorio non può essere più giovane di 200mila anni, in sostanziale accordo con la stima geologica, di un’età di circa 250mila. La scoperta è importante se si considera che la stessa età di 295mila anni è stata ipotizzata dai paletnologi inglesi per gli strumenti in selce ritrovati sui terrazzi fluviali del Solent river, poco a sud di Londra, che sono attribuiti alle prime presenze dell’uomo di Neanderthal in Europa.

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“Sono più vecchi di oltre 100.000 anni rispetto a quanto sinora ritenuto, portando l’età del Neanderthal in Italia a 250.000 anni fa”, rileva il responsabile dello studio, Fabrizio Marra, dell’INGV. E continua: “il lavoro è partito dal punto in cui i ricercatori erano giunti un anno e mezzo fa, quando avevano dimostrato, attraverso la correlazione tra cicli sedimentari e variazioni globali del livello del mare, che i terreni in cui erano stati ritrovati i due crani erano molto più antichi di quanto sino allora ritenuto. Si è evidenziato che nessuno di questi reperti presenta caratteri tali da implicare un’età di 125.000 anni, come ipotizzato negli studi precedenti, mentre risultano del tutto compatibili e oltremodo simili ai sedimenti attribuiti e datati 250.000 anni”. “I resti della Valle dell’Aniene costituiscono la più antica evidenza diretta della presenza dell’uomo di Neanderthal sul continente europeo”, precisa Marra. “Gli uomini di Neanderthal potrebbero essere stati pertanto i protagonisti di una nuova antropizzazione dell’Europa avvenuta più di 250.000 anni fa: anche allora passando attraverso un’Italia ospitale, almeno dal punto di vista climatico, dove proprio nella sua capitale avrebbero stabilito una delle prime comunità”.

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I resti portati alla luce in Italia non sono molto numerosi rispetto all’Europa continentale. Prima di questo studio, l’esemplare di Neanderthal più antico ritrovato in Italia era l’Uomo di Altamura, scoperto in Puglia, incastonato in una cava di calcare nel 1993. Le analisi dei depositi di calcio sullo scheletro datano il reperto dai 128.000 ai 187.000 anni fa. Lo scheletro è rinomato per aver fornito il più antico campione di DNA estratto da sempre da un uomo di Neanderthal.

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Anche in Calabria sono stati ritrovati alcuni di questi rarissimi resti: una porzione cranica a Nicotera (Vibo Valentia) in Contrada Ianni di San Calogero e una mandibola a Reggio Calabria nel quartiere Archi.

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Le ultime tracce dei Neanderthal si perdono in Crimea sul massiccio Ak-Kaya. Qui Neanderthal e Sapiens vissero insieme per un certo periodo di tempo, nelle stesse condizioni climatiche e ambientali.

I Neanderthal prendono il nome dalla valle di Neander presso Düsseldorf, in Germania, dove vennero ritrovati i primi resti fossili. Erano simili agli esseri umani in apparenza, anche se erano più bassi e tarchiati. I loro volti generalmente presentavano un naso largo, una arcata sopraccigliare prominente e zigomi angolati. Sono i nostri parenti estinti più stretti. Fiorenti in Europa per gran parte del Pleistocene, i resti dei Neanderthal sono stati trovati in tutto il continente, dalla costa del Mar Nero della Russia alla costa atlantica della Spagna. Fu un “Homo” molto evoluto, in possesso di tecnologie litiche elevate e dal comportamento sociale piuttosto avanzato, al pari dei Sapiens di diversi periodi paleolitici. Convissuto nell’ultimo periodo della sua esistenza con lo stesso Homo Sapiens, l’Homo Neanderthalensis scomparve in un tempo relativamente breve, evento che costituisce un enigma scientifico oggi attivamente studiato. Le presunte teorie vanno dagli effetti dei Sapiens, attraverso una maggiore competizione violenta per il cibo e per le risorse, dalla trasmissione involontaria di fatali malattie o dalla selezione sessuale,  al cambiamento climatico o anche ad una importante eruzione vulcanica. L’analisi del DNA ha rivelato che il genoma dell’Homo Sapiens e dell’Homo Neanderthalensis è identico al 99,84% e che hanno meno di 100 proteine che differiscono nella loro sequenza amminoacidica. Tuttavia, nonostante la strabiliante somiglianza genetica, le due specie contano differenze fondamentali. In altre parole, le differenze tra le due specie potrebbero essere valutate con una serie di interruttori on/off che attivano o meno parti del DNA.

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Sapiens e Neanderthal si incrociarono più volte nell’Europa di 50 mila anni fa, ma non furono in grado di generare prole sana, in particolare, figli maschi in grado di perpetuare un nuovo mix umano. Lo rivela uno studio di Michael Barton, archeologo della School of Human Evolution and Social Change dell’Arizona State University, sulla genetica dei nostri lontani “cugini” effettuato non sul DNA mitocondriale (quello trasmesso dalla madre), ma sul cromosoma Y di un maschio Neanderthal vissuto a El Sidrón (Spagna) 49 mila anni fa. Le analisi dimostrano che quel cromosoma sessuale è completamente diverso da quello dell’uomo moderno: in pratica, del cromosoma Y dei Neanderthal non c’è più traccia nel DNA dei maschi Sapiens. E questo, nonostante europei ed asiatici abbiano ereditato dall’1 al 3% del patrimonio genetico (si parla di un 20%, forse di un 30%, se invece si considera complessivamente tutto il materiale genetico) dei vicini ominidi come afferma uno studio di Svante Pääbo dell’Harvard Medical School di Boston, uno dei fondatori della paleogenetica. Il DNA del Neanderthal spagnolo presenta mutazioni in tre diversi geni immunitari, uno dei quali produce antigeni che scatenano una risposta immunitaria nelle donne incinte, causando l’aborto dei feti maschi recanti quel gene. In pratica, anche se Sapiens e Neanderthal si incrociarono, anche in tempi relativamente recenti, furono incapaci di generare maschi sani: rimasero vicini, ma separati. Una distanza che avrebbe decretato il declino definitivo dei Neanderthal. Generazione dopo generazione, il DNA dei Neanderthal si sarebbe disperso, assorbito da quello delle popolazioni di Homo Sapiens, molto più numerose.

I Neanderthal comunque sono tra noi. Meglio, dentro di noi con una variante di un gene che regola le funzioni della cheratina, una proteina che aiuta la pelle, i capelli e le unghie che ci avrebbe avvantaggiato in un ambiente freddo. Ma anche con varianti correlate al diabete di tipo 2, alla malattia di Crohn, alla cirrosi biliare, al lupus. Sarebbe questa l’eredità dei Neanderthal che noi Sapiens ci portiamo dietro da almeno 40 mila anni.

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Il businessman della valle di Neander che veste Armani al Neanderthal Museum di Mettmann in Germania.

 

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters