I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (6° Parte)

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I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (6° Parte)

Continua la nostra rubrica alla scoperta dei personaggi calabresi che con il loro ingegno e con il loro modo di fare hanno rivoluzionato le nostre abitudini e la nostra visione del mondo. Dalla cultura accademica a 360°, al rispetto per la donna e per la femminilità, passando per gli ideali di libertà sia personali che di un popolo intero, noi calabresi siamo stati sempre all’avanguardia. E se qualcuno ancora vi parla della Calabria come di terzo mondo d’Occidente, voi rispondetegli tranquillamente che se sono come sono, così sviluppati, è anche e soprattutto merito dei calabresi, portatori in tutti i secoli di innovazione e di progresso.

AULO GIANO PARRASIO

Aulo Giano Parrasio, pseudonimo latinizzato di Giovan Paolo Parisio , nacque a Figline Vegliaturo, vicino Cosenza, il 28 dicembre 1470 da Tommaso, giureconsulto e consigliere del Senato napoletano, e Pellegrina Poerio. Come molti umanisti ebbe una vita errabonda. Ebbe come primo maestro Giovanni Crasso da Pedace, che lo avviò alla conoscenza del latino. Verso il 1883 si trasferì a Lecce, dove il padre era stato nominato governatore, e intraprese lo studio del greco sotto la guida di Sergio Stiso. Fra il 1488 e il 1489 si recò a Corfù per frequentare la scuola di Giovanni Mosco, dove perfezionò la conoscenza del greco. Rientrato a Cosenza, frequentò le lezioni dell’umanista marchigiano Tideo Acciarino Piceno. Ebbe certamente una formazione giuridica, sollecitata dal padre, di cui resta traccia nel Vocabularium legale, un elenco alfabetico di quesiti giuridici tratti dai giureconsulti antichi. Nel 1491, Parrasio si reca una prima volta a Napoli, dove conosce Giovanni Pontano, fondatore dell’Accademia Pontaniana, e molti altri membri illustri dello Studium e dell’intellettualità napoletani, come Francesco Pucci, Iacopo Sannazaro, Antonio Seripando e moltissimi altri. A questi egli dedica la celebre “Oratio ad Patritios Neapolitanos”. Alla frequentazione dell’ambiente pontaniano risale probabilmente l’adozione del nome latino Aulus Ianus Parrhasius. Parisio si trasferì a Napoli nel 1492 e l’anno dopo fu nominato da Ferdinando I d’Aragona maestro di camera e ricoprì incarichi nella cittadina calabrese di Taverna e a Lecce. Era in rapporti di amicizia con Ferdinando II (Ferrandino), come evidenziano una lettera a lui indirizzata e l’epicedio in versi per la morte della madre, Ippolita Maria Sforza. È probabile che Parisio abbia seguito Ferrandino nella fuga da Napoli occupata da Carlo VIII (febbraio 1495) e poi nella riconquista del Regno. Dopo la morte di Ferrandino (6 ottobre 1496) e la salita al trono di Federico I si trovò coinvolto in intrighi di corte e preferì abbandonare Napoli per trasferirsi a Roma e intraprendere la carriera di insegnante. Arrivato a Roma alla fine del 1497, seguì le ultime lezioni di Pomponio Leto e si legò a Tommaso Fedra Inghirami, che gli fece assegnare l’insegnamento di oratoria nello Studio romano. All’inizio del 1499, in seguito all’uccisione di due suoi allievi, implicati nelle trame che accompagnarono il pontificato di Alessandro VI, decise di abbandonare Roma e di trasferirsi a Milano. Nella città lombarda Parisio trovò alloggio e occupazione nella scuola del retore e tipografo Alessandro Minuziano, di venti anni più grande di lui, che al tempo dirigeva una biblioteca e una pensione. Minuziano riconosce subito le doti del cosentino, e lo assume come «hypodidascalos». Dopo qualche mese Parisio si trasferì presso un allievo, Catulliano Cotta, che gli dette l’opportunità di aprire una scuola propria e che formò con lui un sodalizio editoriale. Nel 1504 sposò Teodora Calcondila, figlia dell’ateniese Demetrio, che insegnava greco a Milano e grazie a Poncher, vescovo parigino all’epoca presidente del Senato milanese, Parisio ottenne nel 1501 la cattedra di eloquenza delle scuole palatine. L’evento fu recepito non senza invidia dal Minuziano, anche perché, in breve tempo, il Parrasio cominciò a mostrare il proprio talento, e gli allievi cominciarono a disertare le lezioni del Minuziano per seguire quelle del Parrasio. Tra i due umanisti cominciarono a sorgere attriti, fino alla disputa, che si tinse di toni accesi, polemici e denigratori, soprattutto da parte del Minuziano, che accusava il Cosentino d’esser fuggito da Napoli reo di omicidio, fino all’accusa più infamante, cioè quella di pederastia. Oggetto anche di un’aggressione fisica, nel 1507 egli accettò l’offerta di Giangiorgio Trissino e si trasferì, assieme l’allievo calabrese Giovanni Antonio Cesario, a Vicenza per insegnare grammatica e retorica. In seguito alle vicende seguite alla sconfitta di Venezia ad Agnadello (1509) si trasferì dapprima a Padova e poi a Venezia, ospite dall’allievo Ludovico Michiel. Nell’estate 1510 vagliò la proposta di insegnamento offertagli dalla città di Lucca, ma qualche mese dopo preferì abbandonare Venezia per la Calabria, dove arrivò nel giugno 1511 dopo una sosta di alcuni mesi a Napoli, dove fu accolto dall’amico Antonio Seripando e da altri sodali dell’Accademia Pontaniana. All’attività svolta nei mesi successivi a Cosenza viene fatta risalire l’ Accademia Parrasiana, quella che in seguito verrà denominata l’Accademia cosentina, una delle primissime accademie fondate in Europa, la seconda del Regno di Napoli. L’Accademia ha lo scopo di diffondere con ogni mezzo e verso ogni direzione la cultura, valorizzare e difendere i grandi valori umani, artistici, scientifici, culturali della società nazionale e incoraggiare i giovani sulla via dello sviluppo e della riforma culturale. Luigi Accattatis, storico e lessicografo, scrisse che Parrasio giunto a Cosenza non “stette neghittoso, perocchè raunando come a distinto convegno di utile parlamento in più valenti letterati suoi concittadini, pose in cotal guisa i primi fondamenti all’Accademia Cosentina, che salita in tanta reputazione per opera del Telesio, del Quattromani e di altri illustri, conserva tuttavia, coi nomi di Salfi, di Lombardi, di Vincenzo Mollo, di Luigi Maria Greco, di Ferdinando Scaglione e d’altri molti, distintissimi ingegni viventi, vanto non dubbio di questa terra ove la pianta del genio non avvizzisce mai! Tutte l’altre accademie, almeno di certa rinomanza, furono posteriori. E così Napoli e Cosenza, la parte meridionale d’Italia, la quale, mentre nomavasi Magna Grecia, fu l’antica culla delle lettere e della filosofia, ove Pitagora fondò la sua immortale scuola, che, a guisa di splendidissimo sole, sparse la prima luce del sapere sopra tutte le genti, la parte, dico, meridionale d’Italia, obliar non potendo la sua vetusta gloria”. È questo l’elogio più grande di cui meritatamente si onora Aulo Giano Parrasio fondatore del Sodalizio Cosentino, fanale di luce nella tenebra di secoli poco favorevoli alla scienza, vessillo di libertà filosofica e civile, scuola d’una letteratura nè corrotta nè corruttrice, altare di libazioni moralmente sublimi. Negli anni successivi insegnò ad Aiello, a Cleto e a Taverna e, nel 1514, Leone X gli assegnò incarichi di insegnamento presso lo Studio romano con le cattedre di eloquenza nell’Accademia Pomponiana e latino nell’Archiginnasio. Nell’aprile 1518 ottenne sempre da Leone X la dispensa dall’insegnamento e una pensione. Nel 1519 progettò di trasferirsi a Napoli, grazie a un legato del cardinale Luigi d’Aragona, ma le precarie condizioni di salute lo indussero a raggiungere Cosenza. A Cosenza Parisio morì nei primi giorni del dicembre 1521. Poco prima della morte Parisio lasciò in eredità ad Antonio Seripando l’ingente biblioteca raccolta negli anni precedenti: essa contava, nell’inventario redatto dopo la morte, 567 fra codici e libri, molti con annotazioni dell’umanista. Seripando li lasciò in eredità al fratello, il cardinale Girolamo. La biblioteca passò poi al convento napoletano di S. Giovanni in Carbonara, subendo perdite e dispersioni. Il nucleo più consistente è conservato nella Biblioteca nazionale di Napoli.

NOSSIDE

Nella Locride remota, tra il IV e il II secolo avanti Cristo, ma già civilissima nel tempo in cui Roma era poco più di un villaggio di pastori e la pianura padana un acquitrino con palafitte, visse e cantò Nosside, la più grande poetessa della Magnia Grecia, inserita nel filone dorico-peloponnesiaco della poesia epigrammatica. Di lei si conosce poco, le poche note biografiche sono contenute nell’ultimo dei dodici epigrammi di questa autrice, giunti fino a noi:

“O Straniero,
se navigando ti recherai a Mitilene dai bei cori,
per cogliervi il fior fiore delle grazie di Saffo,
dì che fui cara alle Muse,
e la terra Locrese mi generò.
Il mio nome, ricordalo, è Nosside. Ora va’!”.

Di sicuro i suoi componimenti continuarono ad essere conosciuti, apprezzati e tramandati durante tutta l’antichità, tant’è vero che ancora nella seconda metà del I sec. a.C. Antipatro di Tessalonica, poeta epigrammatico, la inserisce tra le nove Muse terrestri (contrapposte alle nove Muse celesti), ossia tra le più famose e rispettate poetesse dell’antichità greca:

“Queste donne di divin favella allevò con canti l’Elicona
e (lo stesso fece) la vetta macedone della Pieria,
Prassilla, Merò, di Anite, Omero al femminile, la bocca,
Saffo gioiello delle Lesbie dalle belle chiome,
Erinna, la celebre Telesilla e te, Corinna,
che cantasti il temibile scudo di Atena,
Nosside dalla suadente voce femminile ed il dolce canto di Mirtide,
autrici tutte di testi immortali.
Nove Muse (generò) il grande Urano, e nove anch’esse
da Gea generate, gioia perenne per i mortali.”

Nosside con molta probabilità discendeva da una famiglia appartenente alla nobiltà Locrese ed in uno dei suoi epigrammi ci ha tramandato il nome della madre, Teofili, e della nonna, Clèoca; in particolare, in tale epigramma, l’identificazione matrilineare dei rapporti di discendenza ha portato alcuni studiosi a considerare tale descrizione un ulteriore elemento tendente ad avvalorare la possibile esistenza del matriarcato nell’antica polis Locrese o, quantomeno, un’ulteriore conferma dell’importanza del ruolo della donna a Locri Epizefiri. I dodici epigrammi, unici frammenti di una produzione poetica presumibilmente assai vasta se l’autrice si vanta di essere “l’unica poetessa d’Occidente, come Saffo lo era stata di Oriente”, bastano a testimoniare la grandezza di Nosside e la straordinaria importanza, per la civiltà occidentale, di Locri. Nosside è stata un’artista nota per la sua totale dedizione all’universo femminile, tanto che i poeti la soprannominarono “Voce di donna” . Nella sua poesia sono riscontrabili affinità, probabilmente volute, con l’opera di Saffo, che la poetessa cita in uno dei suoi epigrammi. Nosside, però, non ereditò dal modello letterario solo la fedeltà ad Afrodite, ma anche le accuse di omosessualità e prostituzione tanto che ha fatto ipotizzare l’esistenza nella colonia greca di un tiaso simile a quello saffico guidato, appunto, dalla poetessa Nosside. E del resto, tenendo conto che si tratta sempre di supposizioni, l’ideale della vita che Nosside sembra possedere appare ben chiaro nell’epigramma nel quale l’identità di vedute con il pensiero saffico è più che chiara:

“Nulla è più dolce dell’amore,
ogni altra felicità gli è seconda;
dalla bocca sputo anche il miele.
Così dice Nosside: solo chi non è amato da Cipride
ignora quali rose siano i suoi fiori.”

Le rose sono i fiori di Afrodite ed il confronto con gli altri valori della vita è espresso, in modo deciso e certamente efficace, dalla supremazia dell’amore nei confronti dello stesso miele che era considerato “cibo degli dei”. Proprio la determinazione che si evince da questi versi renderebbe l’epigrammista una delle prime donne occidentali con una voce riconoscibilmente femminile, ma soprattutto farebbe pensare all’esistenza di una vera e propria silloge volta a raccogliere i suoi componimenti. Purtroppo, a parte questo breve “manifesto poetico”, di Nosside non ci sono pervenuti altri epigrammi dedicati all’amore, obliati dal tempo probabilmente a causa della fredda accoglienza riservata alle donne poetesse, specialmente se ispirate da tematiche erotiche. La produzione conosciuta comprende anche epigrammi descrittivi, detti anche ecfrastici, che vedono le donne protagoniste di offerte votive nei templi di Afrodite o colte nella grazia dei loro lineamenti e nella loro spiritualità. Proprio tale attenzione ai dettagli della vita concernente la donna rende i pochi versi di questa poetessa, delle piccole perle dell’antica quotidianità femminile: non sappiamo se questi scorci appartenessero ad un’esistenza da nobile o da cortigiana, tuttavia, ancora oggi in Calabria la statua della poetessa è conservata gelosamente, senza dare troppo peso alle inutili e ormai superate questioni relative allo status sociale. Della sua opera, come detto, ci sono pervenuti appena dodici epigrammi, di argomento vario; essi sono giunti sino ai giorni nostri grazie alla loro registrazione nella cosiddetta “Corona di Meleagro”, raccolta di epigrammi di vari autori andata ormai perduta nella sua forma originale ma che, nella sua parte superstite, ha costituito nel medioevo il nucleo fondante per la realizzazione dell’Antologia Palatina. Meleagro di Gadara, che tale corona compose, la immaginò appunto come una ghirlanda nella quale inserire (intrecciare) i fiori più belli che il prato della poesia greca avesse generato e nel proemio della sua opera indicò per ogni poeta, alla cui opera attinse nella realizzazione della raccolta, un fiore che lo identificasse da intrecciare con quello di tutti gli altri poeti; queste sono le parole che dedica a Nosside di Locri:

“… e con questo avendo intrecciato il fresco e profumato giaggiolo di Nosside, sulle cui tavolette Eros in persona spalmò la cera..”.

Nell’attuale cittadina di Locri, sul lungomare, è presente un monumento a Nosside, scolpito dall’artista Tony Custureri.

GIUSEPPE MUSOLINO

Giuseppe Musolino, conosciuto come il “Brigante Musolino” o “U re i l’Asprumunti” nasce a Santo Stefano un paesino di 2500 anime alle pendici dell’Aspromonte in provincia di Reggio Calabria, il 24 settembre 1876, terzo di cinque figli. Anche il giovane Giuseppe, come il padre, si dedica all’attività di taglialegna nella foresta aspromontana. La sua notorietà inizia il 28 ottobre del 1897 passando poi alla storia sotto il nome di “il brigante Peppe Musolino il giustiziere d’Aspromonte“. E’ sera, all’osteria del paese si beve vino, si chiacchiera, si gioca a carte in un’atmosfera festosa. Ad un lato della locanda si sta disputando una partita di nocciole, da una parte Giuseppe Musolino e Antonio Filastò dall’altra i fratelli Vincenzo e Stefano Zoccali. Scoppia una zuffa tra di loro, calci, pugni e spunta anche un coltello. Una rissa come tante altre ma il giorno seguente qualcuno, forse per un torto arretrato o forse per uno stratagemma architettato ad arte, spara alcuni colpi di fucile a Vincenzo Zoccali che rimane ferito. Intervengono i carabinieri che trovano sul luogo dell’agguato il berretto di Giuseppe Musolino e quindi, inevitabilmente, accusato del vile gesto. Vengono arrestati Antonio Filastò e Nicola Travia. Musolino non viene trovato in casa. Brucia l’ingiusta accusa di tentato omicidio e scappa via deciso a dimostrare la sua innocenza. Passa i successivi sei mesi nascondendosi da parenti ed amici fin quando la guardia municipale Alessio Chirico di Sant’Alessio, borgo limitrofo a Santo Stefano, non confida ai carabinieri che Musolino è ancora in paese. Il giovane Peppe viene rintracciato ed arrestato. Condotto a Reggio viene processato per il tentato omicidio di Vincenzo Zoccali il 24 settembre del 1998. Nonostante le tante prove portate a sua discolpa le false testimonianze di Vincenzo Zoccali e Stefano Crea che affermarono di averlo visto adirato per il bersaglio fallito, non vengono smentite. Quattro giorni dopo la Corte d’Assise emette la sentenza: 21 anni di carcere. La famiglia Musolino aveva cercato il meglio nel foro reggino per la difesa di Giuseppe. La prima scelta cadde su Domenico Tripepi, impegnato anche politicamente nel settore liberale-democratico, che però pretendeva una parcella esosa di 500 lire, cifra impossibile per una famiglia modesta quindi, si ripiegò su Biagio Camagna, massone-radicale, che accetta l’incarico per un compenso abbordabile di 100 lire. Camagna, però è deludente nella difesa, tanto che lo stesso Musolino si lamentò che l’avvocato lo abbia volutamente trascurato per proteggere il cugino Giuseppe Travia, il vero autore degli spari. Viene immediatamente tradotto nel carcere di Riace Marina. Il suo morale è a terra e continua a proclamarsi innocente. I suoi detrattori se la ridono, burlando il giovane pubblicamente nella piazza principale di Santo Stefano. Ma Peppe giura vendetta: “Si per casu a lu paisi tornu, chidd’occhi chi arridiru ciangirannu” (“se per caso al paese torno quegli occhi che risero piangeranno”). Passarono i primi mesi di prigionia e la rabbia per il torto subito fa aumentare la voglia di farsi giustizia. Alle ore 3:30 del 9 gennaio 1899, insieme ai suoi compagni di cella Giuseppe Surace, Antonio Filastò e Antonio Saraceno riesce a fuggire. Si racconta che in sogno San Giuseppe gli avrebbe indicato il punto della cella dove scavare per aprire una facile via di fuga. E’ inverno, fa freddo, ma Musolino riassapora il gusto dolce della libertà. Corre lontano da quel luogo terribile che pensava sarebbe diventata la sua tomba. A piedi risale le pendici dell’Aspromonte fino al suo paese Santo Stefano con in testa un solo obiettivo: farsi giustizia. Nei primi 8 mesi dalla fuga, nascondendosi tra le montagne, nei boschi, nelle caverne, nei cimiteri, godendo dell’appoggio dei parenti, degli amici, della gente comune che lo vede come un simbolo dell’ingiustizia in cui la Calabria allora versava, commette 5 omicidi e 4 tentati omicidi contro coloro che l’hanno accusato e tradito inoltre tenta di distruggere la casa di Zoccali con la dinamite. Sulla testa di Giuseppe Musolino viene posta una taglia di 5.000 lire e i tentativi di acciuffarlo si moltiplicano ma lui riesce sempre a sfuggire. Ci ha tentato Antonio Princi versando dell’oppio in un piatto di maccheroni per farlo addormentare ma il tentativo fallisce e Musolino ferisce il traditore e uccide il carabiniere nascosto in attesa di poterlo arrestare. Si tenta di fargli credere che potesse emigrare con una nave attraccata a Capo Bruzzano ma lui non si presenta all’appuntamento scoprendo poi che nessuna nave era lì attraccata ed era solo una trappola per acciuffarlo. La gente si schiera dalla parte del “brigante”, l’eroe gentile e spietato, simbolo dei torti subiti che vuole farsi giustizia da solo sfidando apertamente lo stato. La sua notorietà si sparge, grazie alla stampa, in tutta Italia e nel mondo. A lui sono dedicate lunghe pagine ed approfondimenti sul Corriere della Sera, il Mattino, l’Adriatico, la Nazione, il Secolo, e i locali Cronaca di Calabria, Gazzetta di Reggio, Gazzetta di Messina e delle Calabrie, La Giovine Calabria. Addirittura parlano del Brigante anche il Times di Londra e Le Figarò a Parigi. La sua figura diventa una sorta di leggenda e le sue gesta diventano uno spunto per molte canzoni popolari. Il tempo passa e Musolino rappresenta ormai l’eroe del popolo meridionale che si batte contro l’ingiustizia dello Stato romano. Ma il Brigante è stanco. Le continue fughe, i pedinamenti, gli agguati. Peppe Musolino decide che è ora di smettere i suoi panni di giustiziere. Il pensiero va alla famiglia ed ai suoi amici, messi in pericolo dalla fame dei tanti cacciatori di taglie, dalle cattiverie degli infami traditori e dall’insistenza degli uomini dello Stato che li perseguitano con continui interrogatori e perquisizioni. E’ il 1901 quando il Brigante decide di lasciare la Calabria. Il suo obiettivo è quello di fuggire per chiedere la grazia al nuovo Re Vittorio Emanuele III. Si mette in cammino percorrendo veloce la linea degli Appennini. Ma la sorte decide di voltargli le spalle. Due carabinieri, l’Appuntato Amerigo Feliziani di Baschi e Antonio La Serra da San Ferdinando di Puglia, comandati dal brigadiere Antonio Mattei, il padre di Enrico Mattei, uno dei grandi protagonisti del novecento italiano, erano in perlustrazione alla ricerca di malavitosi locali, in località Farneta nei pressi di Acqualagna in provincia di Urbino; Giuseppe Musolino vedendoli e credendo che stessero cercando lui, incomincia a correre ma inciampa in un fil di ferro che legava le viti di un vigneto e viene fermato. Per questo evento divenne famosa la frase “Chiddu chi non potti n’esercitu, potti nu filu” (“quello che non poté un esercito, poté un filo”). I quotidiani del 17 ottobre del 1901 rendono noto l’evento: “Il giustiziere d’Aspromonte Giuseppe Musolino è stato arrestato, lo stato ha vinto”. Dopo che Musolino viene arrestato, il mattino del 22 ottobre 1901 è interrogato e quindi il 24 ottobre trasferito nel carcere di Catanzaro con un treno speciale, sotto la scorta di Alessandro Doria, Ispettore Generale delle Carceri Italiane. Per la sua cattura si stima che il governo abbia speso un milione di lire, come viene riportato sul giornale La Tribuna Illustrata del 27 ottobre 1901: « Si presume che le spese complessive, per la dislocazione delle truppe negli Abruzzi – che come è noto nell’inverno scorso raggiungevano quasi due reggimenti – abbiano toccato le 500.000 lire, e a queste aggiungendo le altre spese ingenti per lo spionaggio, per gli arresti numerosi e per tutte le misure di Pubblica Sicurezza, si verrebbe a raggiungere e forse a sorpassare la somma tonda di un milione. Nessun galantuomo ha mai costato tanto al Governo! ». Il processo presso la Corte d’Assise di Lucca inizia il 14 aprile del 1902, evento questo di interesse nazionale che la stampa segue nei minimi dettagli. L’imputato chiede di essere difeso dai due migliori avvocati d’Italia di quel tempo e, per non dare una cattiva impressione di se all’opinione pubblica, chiede di non vestire gli abiti da carcerato ma avrebbe detto alla stampa: “ho un abito da sedici lire il metro, e lo voglio indossare! Io sono un uomo storico e non un delinquente qualunque bisogna perciò usarmi riguardo!”. Al tribunale di Lucca giungono molti calabresi di ogni svariato ceto sociale a testimoniare, molti di loro con difficoltà ad esprimersi in italiano tanto da rendersi necessaria la presenza di Francesco Limarzi famoso esperto di traduzioni in dialetto calabrese di quel tempo. Durante il processo Musolino a sua discolpa pronuncia la sua autodifesa con parole che diverranno celebri ma non sufficienti ad evitargli una severa condanna: “Se mi assolveste, il popolo sarà contento della mia libertà. Se mi condannaste, fareste una seconda ingiustizia come pigliare un altro Cristo e metterlo nel tempio. Eppoi, vedete, io non sono calabrese, ma di sangue nobile di un principe di Francia. Chi condannate? Un cadavere, perché io posso avere cinque o sei mesi di vita al più!”. Parole che diverranno celebri ma che comunque non gli evitano l’ergastolo al carcere di Portolongone e otto anni di isolamento. Ma si tratta di una seconda terribile ingiustizia. Musolino non è più in grado di intendere e di volere. Gli anni della latitanza, le lunghe fughe, i sospetti, gli agguati, lo hanno condotto alla psicosi. Ma per lo Stato italiano è solo un assassino, un balordo che è riuscito a tenere in scacco per anni l’intero Paese, da punire in maniera esemplare.Il processo lo descrive come un demonio assetato di sangue. Solo 44 anni più tardi, nel 1946, gli viene riconosciuta l’infermità mentale. Viene trasferito nel manicomio di Reggio Calabria, dove muore dieci anni dopo alle 10:30 del 22 gennaio 1956. La vicenda di Musolino si differenzia dalle altre storie criminali della Calabria a cavallo tra l’ottocento e il novecento anzitutto per l’enorme eco che ebbe nell’opinione pubblica. Ad alimentare quest’aurea che si formò attorno alla vicenda del Brigante fu soprattutto il grande clamore mediatico suscitato dalla sua storia. Come scrive anche lo studioso giornalista Enzo Magrì a fare la differenza furono i giornali. Musolino non fu un delinquente qualsiasi. Nella sua epopea si riconobbero le grandi masse meridionali che dal periodo dell’Unità in avanti, dopo le grandi aspettative disattese, avevano conosciuto solo fame e sfruttamento. La vicenda del Brigante Musolino rappresentò da questo punto di vista il riscatto di un intero popolo. Lo stesso popolo che lo aiutò durante gli anni della latitanza, foraggiandolo di viveri e munizioni, avvisandolo in tempo reale degli spostamenti delle pattuglie che lo inseguivano, offrendogli praticamente ogni notte un letto ed un pasto caldo. La storia, un’esagerata mitizzazione, i racconti tramandati di generazione in generazione, le credenze e la tradizioni popolari si intrecciano fino a fare della figura del Brigante Musolino quasi un moderno Don Chisciotte, un moschettiere, un novello Robin Hood al servizio dei deboli contro la superbia dei potenti. La lotta all’ingiustizia dello Stato romanocentrico rappresentò nel novecento un’aspirazione mai placata nelle popolazioni meridionali. Un’aspirazione che il Brigante Giuseppe Musolino giustiziere d’Aspromonte, in maniera probabilmente inconsapevole, seppe interpretare alla perfezione.

 

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, oresteparise.it, treccani.it,  iliesi.cnr.it, locriantica.it, enciclopediadelledonne.it, locride.altervista.org, strill.it, ascenzairiggiu.com