I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (3° Parte)

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I PERSONAGGI CALABRESI CHE HANNO FATTO LA STORIA (3° Parte)

Continua il nostro excursus tra le personalità calabresi che, con la loro arte e la loro genialità, hanno cambiato le sorti della storia e della cultura italiana e mondiale. Queste pillole hanno interessato molto i nostri lettori e anche in questo articolo cercheremo  di conoscere alcuni personaggi che ci rendono orgogliosi di appartenere a questa fantastica terra chiamata Calabria.

GIOVANNI BARRACCO

Il barone Giovanni Barracco nacque il 28 aprile 1829 a Isola Capo Rizzuto, nella Calabria ionica, ottavo di dodici figli, da Luigi Barracco e da Maria Chiara Lucifero dei marchesi di Aprigliano in una nobile e ricca famiglia del Regno delle Due Sicilie. Le fortune dei Barracco erano principalmente legate alle vaste proprietà terriere situate nell’odierna Calabria. L’apice della fortuna dei Barracco, che legano la loro storia a quella del latifondo calabrese, può essere stabilito al 1868 quando, dai documenti dell’archivio di famiglia, risulta che la proprietà aveva raggiunto i 30.000 ettari (una superficie di oltre 2250 chilometri quadrati), per oltre 100 chilometri di lunghezza, comprendendo un territorio che andava da Crotone, sede di un settecentesco Palazzo Barracco, fino al centro della Sila Grande. Questa proprietà faceva dei Barracco i più grandi proprietari terrieri d’Italia e la famiglia più ricca del Regno delle Due Sicilie e il padre Luigi era introdotto alla corte dei Borbone dove rivestiva cariche onorifiche (tra cui quello di Gentiluomo di Camera del Re). Giovanni Barracco trascorse i primi anni della sua vita in Calabria dove fu educato privatamente da Costantino Lopez, un erudito sacerdote originario di San Demetrio Corone. Alla morte del padre, nel 1849, Giovanni si trasferì a Napoli presso il fratello maggiore che aveva stabilito la sua residenza in un sontuoso palazzo a via Monte di Dio.La famiglia, ormai pienamente inserita negli ambienti aristocratici napoletani aveva scelto di aderire, dopo i moti del ’48, agli ideali liberali che animavano lo scenario politico dell’epoca. Erano gli anni della repressione e la famiglia prendeva le distanza dalla corte dei Borbone: mentre il primogenito Alfonso rifiutava il titolo di cavaliere dell’Ordine di S. Gennaro, anche Giovanni rispose negativamente alla proposta del giovane re Francesco II per una carica onorifica a corte e indusse la famiglia a finanziare con 10.000 ducati l’impresa garibaldina in Calabria. Intanto il nome che portava gli apriva le porte dell’alta società. Cominciò quindi a frequentare un circolo di intellettuali che si riuniva presso Leopoldo di Borbone, introdotto dal cognato Enrico d’Aquino principe di Caramanico (che ne aveva sposato la sorella Emilia Barracco), fratello del Re ma animato da ideali liberali. In quell’ambiente, frequentato da artisti e letterati, conobbe Giuseppe Fiorelli, il grande archeologo che divenne direttore degli scavi di Pompei e del Museo Archeologico di Napoli. Questa amicizia, che durò tutta la vita, lo introdusse all’amore per l’archeologia e l’arte antica. L’impegno politico di Barracco e le sue idee liberali lo portarono a partecipare attivamente all’organizzazione del Plebiscito e a ricoprire la carica di consigliere comunale a Napoli nel 1860, mentre nel 1861 il collegio di Crotone e quello di Spezzano Calabro lo fecero eleggere deputato nel primo parlamento dell’Italia unita come rappresentante della destra storica. In questa veste si trasferì a Torino, allora capitale del Regno, dove ritrovò l’antica passione dell’alpinismo diventando il primo Italiano ad arrivare in vetta al Monte Bianco ed al Monte Rosa, e nel 1863, primo tra gli italiani, insieme a Quintino Sella, a scalare il Monviso: da quell’avventura nacque il Club Alpino Italiano CAI che, ispirandosi ad analoghe associazioni esistenti in altri paesi europei, ha per scopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale. Tra i primi incarichi parlamentari Barracco fu chiamato a far parte della commissione che, su suggerimento di Cavour, conferì a Vittorio Emanuele II il titolo di re d’Italia. Dopo un breve passaggio a Firenze, legato allo spostamento della capitale, Giovanni Barracco giunse a Roma e scelse la città come sua patria d’elezione. Fu rieletto alla Camera dei deputati oltre che per l’VIII (quella del primo parlamento unitario) anche per la IX, l’XI e la XII legislatura, ricoprendo la carica di questore e poi di vicepresidente della Camera. In parlamento fu membro della Commissione bilancio e relatore in quella degli esteri. La sua intensa attività parlamentare di meridionalista sempre teso al progresso morale ed economico del Mezzogiorno d’Italia è ben documentata. Si prodigò con passione per sottolineare l’urgente necessità di strutture adeguate per lo sviluppo del Meridione, per favorire l’incremento dei trasporti e gli scambi commerciali, per la salvaguardia e il potenziamento del porto di Crotone, per la tutela della montagna e della collina tramite l’istituzione di una politica forestale e di rimboschimento, per l’irregimentazione delle acque, per la diffusione dell’edilizia rurale, per l’introduzione di colture più redditizie in agricoltura. Promosse e difese, assieme al conterraneo Bruno Chimirri, la Legge Speciale Pro Calabria “Provvedimenti a favore della Calabria”, per cercare di risolvere, con avanzate idee economiche e sociali, l’arretratezza della sua terra. Dal 1875, fece parte della Commissione che doveva approvare le “opere idrauliche per preservare la città di Roma dalle inondazioni del Tevere”. Nel 1886, su proposta di Agostino Depretis, Barracco fu nominato Senatore del Regno: anche al Senato ricoprì la carica di questore occupandosi attivamente e con passione dei lavori di restauro e di abbellimento di Palazzo Madama, impegno che ricordò in un volumetto edito nel 1904. In quegli anni si occupò attivamente dei provvedimenti relativi al patrimonio artistico: nel 1888 intervenne sulla creazione della Passeggiata Archeologica e sulla redazione della Legge Coppino “per la conservazione dei monumenti e degli oggetti di arte e di antichità”. Ma non dimenticò mai la Calabria: memorabile rimase un suo intervento del 1906 sui “provvedimenti a favore delle Calabrie dopo il terremoto del 1905”. Alla fine della sua vita, nel 1911 si ricorda il suo ultimo intervento di rilievo al Senato: Barracco scrisse la relazione sul disegno di legge “per la sovranità piena ed intera del Regno d’Italia sulla Tripolitania e sulla Cirenaica”, ispirata ad alti sensi patriottici. Nello stesso anno partecipò all’inaugurazione del Monumento a Vittorio Emanuele II e alle celebrazioni per il cinquantenario del Regno d’Italia: con grande commozione ricevette il caloroso applauso dell’intera aula del Senato, tributato all’ultimo rappresentante ancora vivente della commissione che nominò Vittorio Emanuele II Re d’Italia. Fu accolto nel circolo della Regina Margherita, alla quale dedicò una raccolta di poesie intitolata Regalia, con cui strinse un’intensa amicizia cementata da comuni interessi intellettuali e dalla passione per la montagna che entrambi condividevano. E fu Barracco che, a nome del Senato, porse alla Regina le condoglianze in occasione dell’uccisione del Re Umberto I.  La sua passione culturale fu tuttavia sempre preponderante sugli altri interessi ed attività. Questa lo portò a costituire sin dalla giovinezza una vasta biblioteca, donata poi al Comune di Roma assieme alla collezione archeologica, e comprendente l’opera omnia di autori quali Omero, Euripide, Tucidide e Senofonte, nonché testi di archeologia classica ed egizia, di cui Barracco fu grande conoscitore (fu insignito per questo della cittadinanza onoraria di Roma). Alla morte di Barracco, la collezione comprendeva oltre 380 pezzi di arte egizia, sumera, assira, etrusca, cipriota, fenicia, greca, ellenistica, italica, romana e medievale.
Giovanni Barracco morì il 14 gennaio 1914.

ALFONSO RENDANO

Alfonso Rendano fu uno dei musicisti italiani più significativi della tradizione tardo-romantica sviluppatasi fra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Compositore versatile e originale, fu anche un pianista straordinario. Esponente della grande scuola pianistica napoletana, è poco conosciuto in Italia, ancor meno in Calabria, che pur gli ha dedicato il suo principale teatro a Cosenza. Era un musicista dalla personalità spiccata, peraltro riconosciuta dalla critica musicale del suo tempo, ma oggi la sua conoscenza è limitata a un pubblico d’essai e affidata a qualche rara incisione discografica. La critica musicale attuale ha avviato una profonda rivalutazione critica della sua opera, riconoscendogli una propria originalità stilistica ed espressiva nel panorama musicale italiano fra Otto e Novecento. Nacque a Carolei (Cosenza) il 5 aprile 1853, da Antonio e da Giuseppina Bruno. Si avvicinò precocemente alla musica, da autodidatta, suonando fin da bambino l’organo di una chiesa del suo paese. Il padre, resosi conto delle sue doti non comuni, gli fece compiere dapprima studi di pianoforte a Cosenza, e nel 1863 decise di fargli sostenere l’esame di ammissione al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, superato tanto brillantemente da sollecitare l’attenzione del direttore, Saverio Mercadante. Rimasto studente del Conservatorio napoletano per soli sei mesi, studiò poi privatamente con Nicola Nacciarone e Giorgio Miceli, il quale lo fece esordire nel 1866 al Circolo Bonamici di Napoli e fin da subito fu giudicato un raro talento musicale. Fu per breve tempo anche allievo di Sigismund Thalberg, che nel capoluogo campano aveva preso stabile dimora. Nel 1867 proprio Thalberg gli propiziò un incontro con Gioacchino Rossini a Parigi, il quale procurò al ragazzo una borsa di studio del governo italiano per poter seguire le lezioni di Georges Mathias, illustre allievo di Fryderyk Chopin. Rimasto nella capitale francese dal 1867 al 1870, Rendano mieté consensi come pianista in diversi salotti aristocratici e in alcuni concerti pubblici. Partito nel 1870 per una tournée in Inghilterra, da Londra si diresse alla volta di Lipsia, dove perfezionò gli studi con Carl Reinecke ed Ernst Richter. Le esibizioni al Gewandhaus lo rivelarono alla critica tedesca e lo misero nella condizione di intensificare l’attività pianistica. Rientrato in patria nel 1874, Rendano diede concerti in varie città italiane, non senza intraprendere altri viaggi Oltralpe. Conobbe Anton Rubinstein in Germania, dove si esibì sotto la direzione di Bottesini, e sarà proprio il celebre compositore e pianista russo a diffondere le musiche di Rendano in Russia. Nel 1880 a Vienna conobbe Hans von Bülow e strinse amicizia con Franz Liszt, che lo invitò a Weimar, dove Rendano si trattenne per tre mesi: qui, grazie all’intercessione dello stesso Liszt, ebbero luogo le prime esecuzioni delle due composizioni strumentali di maggior respiro concepite dal pianista italiano negli anni precedenti, il Concerto per pianoforte e orchestra e il Quintetto per pianoforte e archi. Eseguito alla corte granducale insieme a Liszt nella trascrizione per due pianoforti, il Concerto di Rendano (finito di comporre entro il 1875) aveva un carattere pionieristico in un contesto, quello italiano, dove fino ad allora mancavano quasi del tutto esempi significativi di concerti per pianoforte; per quanto scarsa sia poi stata la fortuna esecutiva, esso aprì la strada alle analoghe composizioni di Giovanni Sgambati (1880) e Giuseppe Martucci (1878 e 1885). Sorte simile ebbe il Quintetto, composto intorno al 1873, uno dei primissimi esemplari della discreta fioritura di tale genere cameristico nell’Italia dell’ultimo quarto di secolo. Al rientro da Weimar, nel settembre del 1880, Rendano sposò la pianista milanese Antonietta Trucco, dalla quale ebbe tre figli: Fausto, morto in giovane età, Franz, battezzato da Liszt, e Maria. Dopo avere suonato ancora in varie città europee, nel 1883 tornò definitivamente in Italia, producendosi più volte in pubblico e affermandosi con scelte di repertorio che lo ponevano in linea con l’impegno interpretativo di Martucci e Sgambati. Negli stessi anni compose anche un buon numero di brani pianistici oscillanti tra il pezzo caratteristico (Barcarola, Valse fantastique), lo ‘stile antico’ (Tre sonatine in stile antico), e i richiami al folclore calabrese (Il montanaro calabro, Variazioni sopra un tema calabrese).  Quella di Rendano fu vera gloria, e ciò indusse il Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli a conferirgli nel 1883 la cattedra di pianoforte, che tuttavia tenne per poco tempo: a causa dell’ostilità con cui fu accolta la sua proposta di riforma degli studi musicali, imperniata sull’idea di organizzare le cattedre secondo un sistema graduale anziché parallelo, si dimise dall’incarico nell’aprile 1886. In un suo opuscolo, “In proposito dell’insegnamento musicale” (Napoli 1889), portò a sostegno delle sue idee le testimonianze e le lettere inviategli da famosi didatti come Mathias, Bülow, Reinecke e Salomon Jadassohn. Nel frattempo fondò sempre a Napoli una propria scuola di pianoforte, nella quale chiamò a insegnare Alessandro Longo e Francesco Cilea. Dal 1889 divenne direttore artistico e pianista principale della Società del Quartetto, ruolo ricoperto fino allo scioglimento dell’associazione (1891). Nel 1892 Rendano fece ritorno a Cosenza, dove rimase circa un decennio per far fronte alle difficoltà generate dal tracollo economico della famiglia. In quel periodo, ritiratosi dall’attività concertistica, si dedicò a comporre il dramma lirico Consuelo, libretto di Francesco Cimmino (tratto dal noto romanzo di George Sand, che ha tra i personaggi Nicola Porpora, insegnante di canto della zingarella eponima). La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro Regio di Torino il 24 marzo 1902: lontano dal linguaggio verista, questo unicum teatrale di Rendano riscosse un certo interesse nella critica che ravvisò nella partitura una «copiosa vena melodica» e una «padronanza assoluta della tecnica armonica e strumentale» (Valetta, 1902, p. 743). Tornato a Napoli nel 1901, poco dopo Rendano si stabilì definitivamente a Roma, riprendendo anche l’attività concertistica. Fra il 1904 e il 1909 ebbero una certa risonanza i grandi cicli di concerti intitolati “Letture ed interpretazioni musicali”, tenuti a Napoli, Roma e Milano: sviluppando gli esempi dei ‘concerti storici’ di Anton Rubinstein, Rendano propose serie di esecuzioni integrali di capisaldi della letteratura per tastiera dal Settecento fino al tardo Ottocento, includendo le 32 Sonate di Beethoven e tutti gli Studi di Chopin. Negli anni intorno al primo conflitto mondiale Rendano diradò sempre di più le apparizioni pubbliche fino all’ultimo concerto, dato al Teatro Valle di Roma nel 1925. Si dedicò allora in prevalenza all’insegnamento privato e a ricerche sulla meccanica del pianoforte. Introdusse in quel tempo un terzo pedale allo scopo di aumentare l’espressività e la possibilità di estensione di un suono o un accordo determinato indipendentemente dagli altri suoni: quest’innovazione, brevettata nel 1919 come “pedale indipendente” o “pedale Rendano”, costituì un passo avanti rispetto al pedale tonale (introdotto nei pianoforti Steinway nel 1874). La sua produzione comprende circa settanta brani per solo pianoforte, un Concerto per pianoforte e orchestra, un Quintetto per pianoforte e archi, un Allegro in La minore per due pianoforti, l’opera Consuelo ed alcune composizioni d’insieme, fra le quali la Marcia funebre in morte di un pettirosso per piccola orchestra. In particolare, il citato Quintetto per pianoforte e archi, riassume in modo emblematico lo stile e la poetica del maestro Rendano, sospeso fra il Romanticismo di matrice tedesca e una certa musicalità tipica della tradizione popolare calabrese. Significativo, in tal senso, il movimento centrale Trio “alla calabrese”, che ripropone il tema di un antico canto popolare calabro che filosofeggia sulla morte. Morì a Roma il 10 settembre 1931. Nel 1935 gli fu intitolato il teatro di tradizione Comunale di Cosenza, fulcro delle attività artistiche dell’intera Regione. Di stile neoclassico ottocentesco, dove spiccano belle decorazioni pittoriche e in stucco, ha forma a ferro di cavallo con tre ordini di palchi e una galleria e con una capienza di 800 posti.

RINO BARILLARI

Saverio Barillari detto Rino è nato a Limbadi nel 1945 e per le sue doti da fotografo dei vip è soprannominato “The King of Paparazzi” (il re dei paparazzi). Le sue parole esprimono al meglio i suoi inizi: «Conoscevo tutti i personaggi dello spettacolo perché aiutavo mio zio, titolare della sala cinematografica del paese in cui sono nato, Limbadi, in provincia di Vibo Valentia. Poi decisi di andare a vederlo dal vivo, quel mondo. Arrivai a Roma con due amici. Loro non hanno resistito, e dopo un po’ sono tornati a casa. Io sono rimasto, e sono ancora qui. È stata dura. Dovevo cercarmi da mangiare e da dormire. Ho fatto sacrifici perché non ero raccomandato. E dovevo pure stare attento a non fare casino, sennò la polizia mi rimpatriava. In un certo senso ero un po’ come un immigrato clandestino». Trova lavoro aiutando gli “scattini”, accompagnandoli nei loro appostamenti venatori non autorizzati fra piazza di Spagna e piazza del Popolo, Fontana di Trevi e, soprattutto, a via Veneto. Di lì a poco, compra una macchina fotografica, una Comet Bencini. Vende i negativi delle foto scattate di giorno ad agenzie giornalistiche come Associated Press, UPI e ANSA. Da mezzo secolo fa questa vita. Mai avrebbe immaginato di diventare lui stesso un pezzo di quella storia italiana che va raccontando col suo lavoro. Lui è un “fotografo per caso”: “Non sono andato a scuola. Ma ho avuto la grande fortuna di vivere accanto ai migliori fotoreporter del mondo. Loro mi hanno fatto capire la fotografia. Io sapevo a malapena cosa fosse una pellicola… All’inizio, per sbarcare il lunario, facevo il loro fattorino. Poi, senza che se ne accorgessero, ho imparato il mestiere. Apprendevo la tecnica senza rompergli le scatole. Facevo finta di sbagliare e dal modo in cui meccanicamente mi correggevano capivo e rubavo i trucchi del mestiere. Del resto, anch’io nel mio piccolo spesso risultavo molto utile alle loro eroiche performance di paparazzi, ad esempio quando mi usavano come “provocatore”. Nel momento in cui individuavano il vip, mi mandavano in avanscoperta come un minuscolo centravanti di sfondamento. Io creavo confusione poi loro arrivavano e colpivano la vittima famosa con mitragliate di scatti.” Il celebre fotoreporter della “dolce vita” capitolina, il ragazzo di Calabria approdato nella capitale alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, conosciuto in tutto il mondo, è un instancabile cacciatore di prede famose,ancora oggi attivissimo. Innumerevoli i suoi trofei, tra cui le celebri stars internazionali rimaste per sempre impigliate nelle sue pellicole come i Beatles, Marlon Brando, Audrey Hepburn, Jean Paul Belmondo, Kirk Douglas, Shirley McLaine, Richard Burton, Liz Taylor, Peter O’Toole, Frank Sinatra, Ingrid Bergman, Brigitte Bardot, per non parlare delle stars nostrane come Virna Lisi, Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Vittorio Gassmann, Anna Magnani, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, e ai vips più moderni come Robert De Niro, Sylvester Stallone, Al Pacino, Francis Ford Coppola, Michael Jackson, Demi Moore, Angelina Jolie, Elton John, Matt Damon, Madonna, Maradona e Lady Gaga. Inutile tentare di stilare l’elenco completo. Impossibile. Una rissa con Peter O’Toole in Via Veneto gli porta la notorietà. È il 1963, l’attore gli spacca un orecchio e il padre del giovane Barillari sporge denuncia perché minorenne. Durante 54 anni di carriera da paparazzo Rino Barillari ha collezionato 162 visite al pronto soccorso, 11 costole rotte, 1 coltellata, 76 macchine fotografiche fracassate, 40 flash divelti, numerose manganellate durante i tumulti di piazza e coinvolto in diverse sparatorie (terrorismo, rapine, rapimenti e fatti di cronaca nera). Dagli anni sessanta in poi Barillari si occupa di cinema, degli anni di piombo e di vari episodi di cronaca nera lavorando per Il Tempo e dal 1989 per Il Messaggero.”Sono stati tempi duri, in cui ho pianto e sofferto molto. Mi è capitato di fotografare amici stesi a terra, sul punto di morire: pochi minuti dopo non c’erano più, non facevano neppure in tempo ad arrivare in ospedale. In quei momenti molti mi hanno accusato di cinismo, ma poi si è compreso il valore di quello che stavo realizzando. Era doloroso, eppure bisognava rendere una testimonianza, bisognava fare la storia”. Il Re dei “paparazzi” è un epiteto di cui va fiero infatti racconta: “Lo portò alla ribalta Fellini nella “Dolce vita” e deriva proprio dalla Calabria infatti lo prese dal libro “Sulle rive dello Jonio” di George Gessing (Coriolano Paparazzo era un albergatore catanzarese che aveva ospitato lo scrittore inglese nel suo viaggio in Calabria), e oggi è il terzo vocabolo italiano più conosciuto nel mondo. Come non esserne fieri? Il problema è che è un mestiere in via di estinzione. Con la scusa degli scandali ne stanno distruggendo la credibilità. Oggi chiunque può improvvisarsi paparazzo. Basta un cellulare e si va all’arrembaggio, per sfornare tonnellate di foto postprodotte, finte. E poi dilagano i servizi anonimi costruiti. Questo crea un bel po’ di difficoltà a chi come me ci mette la firma e la faccia.” E continua: “Sono cambiate le tecnologie per la fotografia, adesso ci sono le macchine digitali e i grandi obiettivi. Ma soprattutto sono cambiati i personaggi. Oggi la star è costruita da un’équipe: c’è una produzione intera dietro a un personaggio, che di sé offre in ogni momento un’immagine studiata nei dettagli. Al reporter non rimane niente da documentare se non quello che la star stessa vuole mostrargli: non si può entrare nella sua vita privata, è tutta una finzione. Sono più stanchi, annoiati. Stufi anche della gente che li ferma per i selfie. Alcuni si autopromuovono pubblicando gli scatti sui propri siti. E il servizio se lo fanno da soli: l’attore rivela di essere innamorato, l’attrice di essere incinta. Che gusto c’è mostrare fotografie ritoccate e bellissime, di dive che appaiono lontane anni luce dalla gente comune?”. È stato nominato docente honoris causa in fotografia presso la Xi’an International University nell’ottobre 2011 e Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana il 2 giugno 1998. Molte sono state le mostre dei suoi scatti nel mondo tra cui le più importanti a Roma, Gerusalemme, Stoccarda, Mosca, Los Angeles, San Pietroburgo e Xi’an. Ha partecipato ad alcuni film dove per lo più ha rappresentato se stesso tra cui “Ieri, oggi, domani” di Vittorio De Sica, “Stanno tutti bene” di Giuseppe Tornatore, “Paparazzi” di Neri Parenti, “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino e “Frank and Ava” di MIchael Oblowits per citarne qualcuno. Ecco cosa pensa Barillari della fotografia: “La fotografia è la storia fissata e raccontata per immagini, il suo carattere fondamentale è la possibilità di immortalare l’istante: è questo che voglio fare con il mio lavoro. La mia idea è di fermare e comunicare l’importanza di un determinato momento, o di un particolare personaggio in quel momento; si può anche sbagliare lo scatto, ma ciò che conta per me, al di là del valore artistico di un’immagine, è documentare. Una volta che lo si è fotografato, si consacra l’istante alla storia. Quando ho iniziato a lavorare non pensavo che i miei scatti avrebbero assunto questo significato, me ne sono reso conto dopo. Hanno iniziato a parlare delle mie fotografie, sono stato anche molto criticato, ma si è riconosciuto che in quelle immagini c’era la storia del nostro Paese.”

 

Alfonso Morelli – team Mistery Hunters

fonti: wikipedia, eccellenzecalabresi, treccani, utopiecalabresi, italianways.com, libreriamo.it