Il “Codex Purpureus Rossanensis” è un Evangeliario greco miniato, del formato di 260 x 307 mm, su pergamena colore rosso-porpora (da qui il nome “Purpureus”), di straordinario interesse dal punto di vista sia biblico e religioso, sia artistico, paleografico e storico, sia documentario. I pregi del manoscritto sono numerosi, tali da renderlo il “capolavoro” della produzione libraria ed artistica bizantina e un “unícum” di valore inestimabile. La bellezza del manufatto (è probabilmente il più antico e meglio conservato documento librario e biblico della cristianità) fa di esso “la più fulgida gemma libraria della Calabria, che da solo fa Museo” (Ciro Santoro). Il testo evangelico, nonostante alcuni errori di trascrizione degli amanuensi, è radice e fonte della dottrina cristiana e della cultura europea. Ottimo è l’equilibrio tra fede e scienza, tra religiosità e tecnica raffinata, tra pazienza e abilità, quale si manifesta sia nella scrittura sia nelle illustrazioni. Oggi il Codex Purpureo si presenta mutilo dei vangeli di Giovanni e Luca; ma in origine raccoglieva i testi completi. Il frontespizio presenta, infatti, una rota riccamente decorata in cui si inseriscono entro clipei le effigi degli evangelisti, e dentro la quale ricorre la scritta in greco “prospetto della sinfonia degli evangelisti”. Tale iscrizione rimanda alla lettera di Eusebio di Cesarea a Carpiano. In questa lettera egli informa che Ammonio di Alessandria (padre della chiesa vissuto tra il 265 e il 340 d.C.) aveva realizzato una esposizione sintetica dei quattro vangeli, affiancando il testo di Matteo agli altri vangeli canonici. All’inizio di ciascun libro vi erano i Kephalaia, cioè gli indici dei capitoli, e la tavola miniata con l’evangelista di cui rimane solo quella di Marco.
Il codice è di elevatissima qualità e presenta una dimensione medio-grande; ha una forma più o meno quadrangolare come era consuetudine in età tardo antica per i grandi libri d’apparato. La sua qualità elevata era anche data dall’uso dell’oricello, un colorante di origine vegetale, il cui uso era abbastanza diffuso tra le classi più elevate per il suo notevole costo, in epoca tardo-imperiale. Il Codex presenta le prime tre righe dei Vangeli con lettere d’oro, mentre il resto del testo è in argento eseguita in una maiuscola biblica disposta su due colonne. Per il resto i titoli che accompagnano le miniature presentano la maiuscola ogivale diritta. Il testo è distribuito su due colonne di 20 righe ciascuna (un’impostazione grafica giornalistica ante litteram). Le parole non recano accenti, né spiriti, né sono tra di loro separate, né compaiono segni di interpunzione, tranne il punto ortografico (“punctum”) che segna la fine dei periodi. Quando, invece, inizia il periodo, la prima parola si apre con una vocale o consonante più grande. Per la preziosità del manoscritto, la raffinatezza dei materiali impiegati la loro alta qualità si può dedurre che dovette essere utilizzato in onore di Cristo, Rex regnantium e Megas basileus. Questo codice, noto anche come il “Rossanensis”, è uno dei sette codici miniati orientali esistenti nel mondo. Tre sono in siriaco e quattro in greco. Questi ultimi sono il “Manoscritto 5111 o Codex Cottonianus”, in possesso della British Library di Londra (di cui, però, a causa di un incendio nel XVII secolo, è rimasto qualche esiguo e decomposto frammento soltanto di una pagina), la”Wiener Genesis”, conservata presso la Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna (costituita da 26 fogli, 24 dei quali miniati), il “Frammento o Codex Sinopensis”, custodito presso la Bibliothèque National di Parigi (formato da 43 fogli e 5 miniature) e infine il “Codex Purpureus Rossanensis”, che, con i suoi 188 fogli, pari a 376 pagine, è il Codice più ampio, più prezioso, più importante di quelli sopra citati; pare che un quinto codice greco, il cosiddetto “Codice o frammento «N»” (contenente una miniatura sulla lavanda dei piedi), esista nella città russa di S. Pietroburgo ex Leningrado.
Dal punto di vista estetico, è diffusa la convinzione tra gli storici dell’arte che le illustrazioni pittoriche delle miniature, il portamento e la severità dei protagonisti e dei personaggi, i motivi stilistici, il gusto della metafora e dell’allegoria, l’efficace tavolozza policromatica etc. rappresentino nel “Rossanensis” la continuità dell’arte classica e pagana, che nell’Oriente (specificamente in Palestina, in Asia Minore, in Siria, ad Alessandria) ha avuto i suoi qualificati centri di produzione e di irradiazione. Il ”Codice” di Rossano, perciò, mentre raccoglie, in sintesi, l’eredità e le suggestioni della cultura artistica ellenistica e di quella religiosa cristiana, svolge l’originale ruolo di tramite e di anello di congiunzione tra la sensibilità creativa del mondo antico, avviata verso la decadenza, e quella del mondo medievale e bizantino, destinata alla nuova egemonia culturale europea. Il “Codex Purpureus Rossanensis” è, altresì, un documento ineguagliabile nella sua carica straordinaria di spiritualità, di contenuti, di messaggi, di forte tensione e, nel contempo, di sereno “pathos”, che trasudano le antiche ed espressive pagine di questo Evangeliario.
La peculiarità del Codex Rossanese è data dalle 15 miniature, scene tratte dai Vangeli che si richiamano alle celebrazioni della settimana santa bizantina, fatto questo che sottolinea una destinazione anche liturgica del libro. In particolare le miniature riprendono:
- la risurrezione di Lazzaro (tav. 1);
- l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (tav. 2);
- la cacciata dei venditori dal tempio (tav. 3);
- la parabola delle io vergini (tav. 4);
- l’ultima Cena e la lavanda dei piedi (tav. 5);
- la comunione col Pane (tav. 6);
- la comunione col Calice (tav. 7);
- Gesù nell’orto del Getsemani (tav. 8);
- la guarigione del cieco nato (tav. 11);
- la parabola del Buon Samaritano (tav. 12);
- Gesù davanti a Pilato e pentimento di Giuda (tav. 13);
- il tribunale di Pilato ed il confronto Gesù – Barabba (tav. 14);
- l’Evangelista Marco (tav. 15).
- Fuori testo sono da considerare le Tavole 9 (Frontespizio delle tavole dei Canoni) e 10 (la lettera di Eusebio a Carpiano in cornice dorata e decorata con fiori ed uccelli).
Di esse 10 illustrazioni presentano la medesima impostazione visiva e grafica: la parte superiore è occupata dalla scena evangelica ed è separata da una sottile linea blu dalla scena inferiore, che è riservata, nella parte centrale, a quattro Profeti, dipinti a mezzo busto, tutti con il braccio destro alzato, con l’aureola e soltanto Davide e Salomone anche con la corona regia; al di sotto dei Profeti, che con la mano destra indicano l’avverarsi delle loro profezie nella scena superiore, ci sono infine le loro citazioni in cartigli o rotoli. Il protagonista, il centro gravitazionale, di quasi tutte le miniature (tranne le nn. IX, X e XV) è la figura, fiera, pensosa, ieratica, autorevole, regale, egemonica, di Gesù: il Cristo barbuto, con i capelli lunghi, riversi sul collo e sulle spalle (e non sulla fronte come privilegerà la successiva arte bizantina), con intense e sempre diverse espressioni del volto, con un grande aureo nimbo crucifero o aureola intorno alla testa, con il mantello greco o himation di colore oro, che lascia scoperto il braccio destro ed i sandali. Sotto l’himation Gesù indossa una tunica lunga manicata o chitone, che è di colore marrone in alcune miniature (Tavv. I, II, III, VIII), mentre in altre è di colore blu-turchino (Tavv. IV, V, VI, VII, XI, XII, XIII, XIV), perché è cambiato il miniaturista o per un significato simbolico oscuro. Gesù, inoltre, viene rappresentato in movimento, con il braccio destro e la mano alzati (Tavv. I, III, IV, V/a, VIII/a): l’accorgimento del miniaturista mira a rendere visibile il momento in cui il Cristo sta per proferire le frasi evangeliche, molte delle quali riportate nella parte superiore o inferiore della scena evangelica della tavola (“ Titula historiarum”).
Non si possono escludere, comunque, altre destinazioni anche in considerazione della solennità delle scene e della preziosità del materiale scrittorio, che non era certo di uso comune e quindi forse proveniente da ambiente nobile e aristocratico. E allora potrebbe trattarsi di un Codice da parato: un codice-oggetto, cioè, destinato all’ostentazione in una casa di rango sociale elevato. Una terza ipotesi, avanzata come la precedente dal Prof. Guglielmo Cavallo dell’Università La Sapienza di Roma, uno dei massimi studiosi italiani di paleografia e storia della scrittura, vede nel Codex un atto di pietà finalizzato alla salvazione dell’anima per conto di un aristocratico committente-donatore. In altri termini, nel mondo bizantino si poteva commissionare un libro sacro donandolo poi a qualche chiesa o monastero allo scopo di ottenere con quell’opera di beneficenza la salvezza dell’anima. Il Codex potrebbe aver avuto proprio questa funzione gratificante.
Le tre ipotesi, comunque, non necessariamente si devono auto escludere, per cui la funzione inizialmente unica potrebbe aver assunto anche gli altri significati. Da oggetto di ostentazione (“status symbol”) e gesto di pietà volto ad ottenere la salvazione dell’anima, è diventato anche oggetto di culto liturgico. Il professor Cavallo afferma: ”L’Italia centro-meridionale era nella tarda antichità e tanto più continuò a essere più tardi crocevia e meta di greco-orientali per convergenti motivi geografici, etnici, politici. Dal VII secolo – spinte dall’eresia monotelita e ancor di più dalle invasioni o incursioni slave, persiane e arabe che travagliavano gravemente l’impero bizantino – ondate di greco-orientali, soprattutto monaci ma anche elementi del clero e laici, giungevano in Sicilia, e da questa in Calabria e a Roma dislocandosi in particolare da Egitto, Palestina, Siria. Si trattò, altresì, di migrazioni non solo d’individui ma pure di modelli, quali soluzioni artistiche, formule liturgiche, istituti giuridici, e di oggetti, tra cui icone, avori, libri. A emigrare da Bisanzio e dai territori a est di Bisanzio nell’Italia meridionale era anche gran parte della classe dirigente, laica ed ecclesiastica, tanto che alcuni tra i papi ‘greci’ dal 642 al 752 provenivano o dalla Sicilia o dalla Calabria: classe sociale ristretta, ma che deteneva e trasferiva in queste regioni modelli e oggetti. Il Rossanensis purpureus, dunque, può esser giunto in Calabria mediante una di queste ondate d’immigrazione, direttamente o passando prima attraverso la Sicilia o magari Roma. L’invasione araba della Sicilia da una parte e la destrutturazione dell’elemento greco a Roma dall’altra determinarono più tardi una varia dislocazione di materiali greci che trovò un ricettacolo privilegiato nella Calabria bizantina dei secoli IX e X. Sicuro in ogni caso è che la vicenda del Rossanensis purpureus venne a legarsi indissolubilmente a Rossano, e Rossano vuol dire la Calabria, la regione che per testimonianze archeologiche, tradizione di pietà, costumi, dialetti conserva, forse più di qualsiasi altrove, il segno e il ricordo dello stretto legame tra l’Italia e la Grecia antica e medievale.”
Certo è che ci troviamo di fronte ad un documento di valore inestimabile, che, tra l’altro, conferma la storica funzione di ponte tra Oriente ed Occidente della Calabria. È da ritenere, pertanto, che il Codex fosse conservato nel tesoro della Cattedrale fin dall’antichità. Ciò giustifica anche come sia potuto sfuggire nel sec. XVI al Cardinale Sirleto, interessato ai manoscritti dei monasteri più che a quelli di conservazione ecclesiastica. In aggiunta c’è da riportare un Memoriale del 1705, conservato nell’Archivio Vaticano fatto pervenire al papa dal clero di Rossano in polemica con l’Arcivescovo Andrea Adeodati, in cui si dice:
“Beatissimo Padre. Il Clero e Publico della Città di Rossano prostrati a’ piedi della S.V. le fanno sapere, come nella Chiesa Metropolitana di detta Città, quale prima officiava sotto il rito greco, e poi da più secoli in qua fu introdotto il rito Latino; e perché si ritrovano quantità di libri greci con lettere e figure dorate e miniate, formate sopra fogli di corteccia d’alberi, quali libri si teneano in gran stima per l’antichità e singolarità”.
Cos’altro possono essere questi “libri greci con lettere e figure dorate e miniate” se non il Codex Purpureus? Inoltre, denunciano proprio l’Arcivescovo di essere “nemico dell’antichità” e di avere “fatto sotterrare i suddetti libri sotto il pavimento della sacristia e proprio sotto il lavabo dei sacerdoti, senza curarsi del danno, che faceva a detta chiesa e città, col privarli di cose così memorabili”. Ed, infine, “ricorrono” perché il Santo Padre possa apportare “opportuno rimedio” alla gravissima vicenda. L’arcivescovo, con la nota dell’11 ottobre dello stesso anno al cardinale Paolucci, segretario di stato della Santa Sede, respinge tutti i gravi addebiti (il documento è conservato nell’Archivio Vaticano, è stato segnalato da P. Francesco Russo nel suo “Regesto Vaticano per la Calabria” vol. IX, reg. n. 50547, pag. 443, ed è stato studiato e divulgato da Luigi Renzo sulla terza pagina de “La Gazzetta del Sud” e nel suo libro “Sprazzi di Calabria. Società, storia e cultura” del 1994, pp. 25-32). S’ignora sia l’esito della controversia sia i risvolti tuttora oscuri della stessa.
La seconda notizia sul Codice di Rossano la fornisce, nel 1831, Scipione Camporota, canonico della Cattedrale della città, che dà ai fogli una prima sistemazione e l’attuale numerazione delle pagine con inchiostro nero. Notizia abbastanza approssimativa la da Cesare Malpica, che nel suo Diario di viaggio nel 1845-46 annota:
“II Capitolo del Duomo (di Rossano, n.d.r.) possiede un tesoro in un libro antichissimo che contiene gli Evangeli scritti in Greco, con caratteri d’argento sovra carta azzurrina, con belle e curiose miniature in testa alle pagine. Par che sia opera fatta al cominciar del medio Evo, quando Odorisi da Gubbio, e Franco Bolognese introdussero in Italia l’arte del miniare. I signori Canonici tengano pur gelosamente questo monumento, che ricorda l’antichità della loro Cattedrale, e i tempi famosi d’Italia. Questo volume in bellezza non cede a quelli di simil natura che io vidi in S. Nicola di Bari, e in S. Pietro in Galatina”.
È vero che non si nomina esplicitamente il Codex, ma il fatto non desta meraviglia perché l’etichetta Codex Purpureus Rossanensis si deve ai due studiosi tedeschi Gebhardt e Harnack, che nel 1879-80 pubblicizzarono l’esistenza del documento. Ancora nel 1878, del resto, un anno prima dell’arrivo dei due studiosi, il medico rossanese Pietro Romano in suo breve saggio storico ( “Frammento di storia patria sul duomo ed episcopio di Rossano”, pp. 41-42), ricorda l’esistenza a Rossano di un “libro misterioso ed arcano”, chiamato semplicemente “libro antichissimo degli Evangeli Greci”, che, avendolo cercato ma non avendolo trovato, viene paragonato all’ “araba fenice, che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa!”, anche se ammette che la notizia “viene confermata da persone degne di fede e dalla testimonianza come il Malpica”.
Assodato allora che il Codex è stato di proprietà della Cattedrale da tempo immemorabile, restano ancora alcuni quesiti tra cui quando è stato portato a Rossano e da chi. Gli storici convengono che a portarlo in Occidente siano stati tra l’VIII-IX secolo i monaci melchiti in fuga dalla Siria, dalla Palestina, dall’Egitto e dalla Cappadocia, sia a causa dell’odio iconoclasta dei bizantini (i monaci erano perseguitati perché ritenuti i principali diffusori del culto delle immagini), sia a causa degli Arabi che avevano invaso tutto il Medio Oriente e quindi non restava loro nemmeno il deserto per vivere in pace. La Calabria per la vicinanza con l’Oriente e per la natura stessa del terreno offrì a questi monaci profughi un rifugio ideale per continuare la loro vita ascetica, anche se lontani dalla madre patria. Una di queste comunità, ipotesi molto possibile, si stabilisce in qualcuno dei tanti monasteri rupestri ipogei, costituiti da grotte di arenaria, del tipo eremitico o lauritico (il monaco vive da solo in una grotta, ma in altre grotte vicine vivono altri monaci), che formano allora la famosa “Montagna Santa” (“Aghion Oros”) della città jonica, dove portano quanto di più prezioso avevano prodotto nella loro patria di provenienza, che, proprio perché prezioso, continua a fare loro da tramite con la Divinità ed impreziosisce la nuova patria di adozione. Il territorio di Rossano proprio in questo periodo infatti si trasformò in una piccola Tebaide. Possiamo ritenere alla luce di tali fatti che questi monaci sopraggiunti si siano portato dietro il Codex, poi rimasto in dote alla Cattedrale greca di Rossano. Se poi accettiamo l’ipotesi precedentemente del Codex da parato e quindi commissionato per essere esposto all’ammirazione in una casa di nobile ceppo, potremmo anche supporre che a portarlo sia stato un nobile aristocratico della corte di Bisanzio trasferito a Rossano e che da questi poi sia stato donato, magari come gesto votivo atto ad ottenere la salvazione dell’anima, alla Cattedrale per uso liturgico.
Non sembri ingiustificato quanto stiamo dicendo ove si pensi che tra i secoli IX-X Rossano si afferma sempre più come centro militare e di cultura fino a diventare, nella seconda metà del sec. X, sede dello Stratego, città-guida della Calabria bizantina e quindi luogo di richiamo e di riferimento per l’aristocrazia in cerca di spazio. In qualunque modo sia pervenuto a Rossano, si può supporre che il Codex sia rimasto in uso nella Cattedrale fino alla soppressione del rito greco, avvenuta intorno al 1462. I canonici greci, ormai in assoluta minoranza, dovettero loro malgrado lasciare forzatamente la Cattedrale per trasferirsi nella chiesa di S. Nicola al Vallone, dove, secondo alcune voci era ubicata l’antica cattedrale bizantina. Il Codex, non più usato dopo la rimozione del rito, col passare del tempo è stato del tutto dimenticato in qualche angolo della sagrestia in balia degli eventi. Sarebbe stato ripescato, sia pure mutilo, dopo l’incendio che l’ha in parte distrutto, conservandolo poi senza alcuna rilevanza tra gli oggetti del tesoro. In un certo senso il silenzio su questo oggetto ha consentito di salvare il Codex da furti e manovre speculative, operazioni normali in tempi non certo benevoli nei confronti delle opere d’arte locali e degli stessi beni della Chiesa. Pensiamo ai commerci di cose sacre degli ecclesiastici, ai sequestri della Cassa Sacra, ai saccheggi dei francesi tra 700 e 800.
Delle fonti dicono che, quando il Codex è tornato alla ribalta delle cronache Europee, i Canonici stavano cercando di venderlo per trovare i fondi necessari da destinare alla ristrutturazione del Coro della Cattedrale e che solo l’intervento oculato e tempestivo dell’arcivescovo Pietro Cilento riuscì a bloccare in tempo l’operazione. Anche i due tedeschi hanno avuto un secco rifiuto alla richiesta di acquisto, malgrado avessero offerto una ingente somma di denaro, ma indubbiamente bisogna però riconoscergli il merito di aver richiamato sull’Evangeliario l’attenzione del mondo della cultura aprendo per il documento un orizzonte più vasto e qualificato. Da allora, infatti, gli studi specialistici si sono susseguiti con passione addentrandosi nel merito dei contenuti esegetici, storici e artistici del meraviglioso Codex Rossanensis.
Gli spazi dedicati al Rossanensis sono inseriti all’interno del Museo Diocesano e del Codex, anch’esso interamente rinnovato al fine di proporre una visione privilegiata degli ulteriori antichi tesori di arte sacra che lo spazio museale conserva grazie anche a un moderno allestimento multimediale. A contenere l’opera sarà una bella scatola di seta per proteggere come un bozzolo la preziosa pelle marocchina della sua copertina e un climabox che come una culla perfettamente climatizzata e sicura, garantirà un fresco costante. Tanto che le preziose pagine, nel 2013 sfogliate sotto gli occhi di Papa Francesco e dell’allora presidente Napolitano, ora potranno essere girate solo una volta all’anno.
Il Codex Purpureus Rossanensis, riconosciuto nel 2015 dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità, ed è stato collocato nel programma di conservazione del patrimonio documentale “Memoria del mondo” (“Memory of the world”), al fine di proteggere questo patrimonio da rischi connessi all’amnesia collettiva, alla negligenza, alle ingiurie del tempo e delle condizioni climatiche, dalla distruzione intenzionale e deliberata.
Il restauro è stato affidato nel 2012 all’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario (ICRCPAL) del Ministero dei Beni Culturali, affinché venissero eseguite approfondite analisi biologiche, chimiche, fisiche, tecnologiche e tutte le necessarie cure per il suo restauro e la sua conservazione. Attraverso il coordinamento di un Comitato di ricerca appositamente costituito presso l’Istituto, è stata condotta un’indagine interdisciplinare al fine di chiarire gli aspetti conoscitivi ancora irrisolti insieme alla redazione di linee-guida per la migliore conservazione dell’antico manufatto dal punto di vista ambientale.
Il lavoro degli studiosi ha fornito, altresì, significative risposte sulla storia e sull’esecuzione del volume, oltre a dettare importanti indicazioni generali sulla fattura e lettura dei codici di analoga provenienza e periodo storico. Nei tre anni di studio e indagini sul Codex si è giunti ad una “rilettura” importante del codice stesso. Il restauro è stato effettuato in modo estremamente rispettoso del volume, per non alterarne ulteriormente le fragilità dovute all’invecchiamento naturale e a varie vicissitudini tra le quali il restauro, fra il 1917 e il 1919, di Nestore Leoni, al tempo famoso miniaturista, i cui interventi, sfortunatamente, hanno modificato in maniera irreversibile l’aspetto delle pagine miniate.
Quasi tutti i ricercatori concordano nel datare il codice intorno alla metà del secolo VI. La legatura, in pelle scura, risale invece al secolo XVII o XVIII. Le pergamene, contrariamente a quanto si credeva non sono state trattate con il murice, un mollusco gasteropode (conchiglia) da cui si ricavava la porpora reale (diffusa dai fenici), ma utilizzando l’oricello, un colorante di origine vegetale. Colorante, evidentemente a disposizione dell’antico laboratorio che trattò le pergamene. Tale importante esito si è ottenuto confrontando i risultati ottenuti su campioni appositamente preparati nel laboratorio di chimica con quelli forniti dagli originali, analizzati in spettroscopia di riflettanza con fibre ottiche (FORS). Le analisi di laboratorio, eseguite in micro-Raman, micro-Infrarosso in Trasformata di Fourier (FTIR) e in Fluorescenza da Raggi X (XRF), su alcuni pigmenti originali e altri appositamente preparati in laboratorio, hanno permesso di approfondire le conoscenze sui materiali pittorici impiegati nell’alto medioevo e forniscono la prima evidenza sperimentale dell’uso della lacca di sambuco in un manoscritto così antico.
Inoltre, l’assenza nel manoscritto di ogni tipo di preparazione delle miniature conferma l’origine Bizantina del codice. Una tavolozza pittorica, composta da molti colori (bianco, nero, rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco, viola, rosa, malva, oro), è stata usata nel prezioso manoscritto. Inoltre, l’oro puro e l’argento sono stati utilizzati per la scrittura dei Vangeli, così come è stato utilizzato inchiostro nero per i titoli. Alcune parti sbiadite dei testi in argento, in epoca sconosciuta, sono state sovrascritte con inchiostro nero. Fortunatamente, per i tecnici incaricati a svolgere le analisi, il miniaturista (o miniaturisti) non ha macinato finemente i pigmenti utilizzati per le miniature. Così è stato possibile analizzare spettroscopicamente ogni singolo pigmento, anche quando applicati in miscela, favorendo così l’identificazione delle materie coloranti.
Per il professor Cavallo: “La carica di spiritualità che vi è insita è restituita, innanzi tutto, dal colore della pergamena e dalle sue valenze simboliche. Il nesso tra porpora e sangue richiamava il sangue versato da Cristo sulla Croce, e da quanti per il trionfo della Croce avevano dato la vita. Purpurei sono dunque i martiri. Altresì la porpora non era solo correlata al simbolismo del sangue espiatorio versato sulla Croce, ma anche al colore della tunica fatta indossare a Cristo per irriderne la regalità che, insieme alla corona di spine, quel colore evocava. Con Costantino e in epoca successiva, la porpora, come simbolo congiunto del potere imperiale e della sacralità divina, una volta proiettata sul libro sacro, ne faceva oggetto di adoratio e di pompa liturgica in occasione di cerimonie sacre.”
Il 2 luglio 2016 il Codex è stato riportato a Rossano da Roma, e per la città e la regione è stato un giorno di festa. Disse Umberto Broccoli, famoso archeologo: “L’arrivo del Codice a Rossano è paragonabile a quando si tolsero i ponteggi alla Cappella Sistina a Roma”. Il Monsignor Satriano invece commentò così:” Sta risorgendo una comunità di uomini e donne che sta producendo benessere non in termini economici ma inteso come crescita spirituale dunque bene dell’essere. Questo è il frutto maturo di un albero che è cresciuto bene”. Per Sgarbi il Codex “rappresenta, seppur nelle difficoltà di godimento di poche pagine, una testimonianza fondamentale del mondo cristiano e dell’Occidente bizantino che ha a Rossano un suo rifugio e la sua fortezza”.
Sul futuro del Codex, la responsabile delle comunicazioni per il restauro del manoscritto, Rosi Fontana affermò: “Il Codice appartiene a Rossano e Rossano sicuramente è il suo Codice Purpureo: possiamo immaginargli ancora altri 1.500 anni di vita. Oggi è in una super teca, super climatizzata, monitorata 24 ore su 24. Quindi è tenuto nel migliore dei modi possibili e la sua musealizzazione continuerà per lunghissimo tempo ed è certamente il monumento più importante dell’Italia Bizantina del Sud.”
Un pezzo di storia che da solo vale il viaggio in Calabria.
Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters
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L’ha ribloggato su chiacchiere pedagogiche.
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