IL CAPPELLO ALLA CALABRESE: SIMBOLO DIMENTICATO DI LIBERTÀ
Ci sono oggetti che attraversano il tempo in silenzio, ma che custodiscono storie potenti. Uno di questi è il “cappello alla calabrese”. A prima vista potrebbe sembrare solo un copricapo, una foggia particolare di feltro, forse un po’ arcaica. Eppure, dietro al suo aspetto, magari curioso, si cela un simbolo profondo di resistenza e libertà. Raccontare la sua storia significa percorrere le strade di una Calabria indomita, salire sulle barricate del Risorgimento, entrare nei salotti delle nobildonne milanesi e nelle trincee degli Alpini, attraversare un’Italia in fermento fatta di uomini e donne che, con un semplice gesto, quello di indossare un cappello, sfidavano imperi e tirannie. Significa riconoscere che anche un semplice cappello può cambiare il corso delle cose, farsi vessillo, provocazione, orgoglio. Si, tutto questo un cappello. Ma non uno qualunque, proprio quello “alla calabrese”. Tanto da essere bandito da tutte le polizie dell’epoca: austriaca, borbonica, papalina. Il motivo? Troppo pericoloso, troppo identitario. Su invito di un nostro lettore (Rocco Cardamone, psicologo di origine calabrese, emigrato al Nord ma con le radici ben piantate nella nostra terra), ripercorriamo le vicende che hanno reso questo copricapo simbolo di ribellione e di speranza.
LE ORIGINI DI UN COPRICAPO IDENTITARIO
Il cappello alla calabrese ha origini antiche e popolari. Già nel 1783 compare nel disegno dell’architetto Pompeo Schiantarelli che raffigura la disperazione a seguito del terremoto del 5 febbraio di quell’anno nella località Santa Cristina in Aspromonte: due uomini con l’abbigliamento tipico calabrese e, sulla testa, quel cappello conico, allungato e che cade un po’ lateralmente o dietro la nuca in rapporto a come viene indossato. Un cappello sobrio e versatile, realizzato in feltro oppure con fibre vegetali come quelle di ginestra, che venivano utilizzate anche per tessere lenzuola e coperte. Pratico per proteggersi dal sole e dalle intemperie, ma anche distintivo: la forma allungata e la sua inclinazione parlavano di un gusto locale, rurale, orgogliosamente meridionale.
Ma la sua trasformazione più importante fu quella da indumento quotidiano a simbolo politico e sociale. Questo passaggio non fu improvviso, ma si compì con decisione durante il periodo dei moti antiborbonici del 1844. In quell’anno, a Cosenza, un manipolo di patrioti insorse contro il potere borbonico. La rivolta fu repressa con estrema violenza, ma qualcosa era stato innescato: il cappello alla calabrese cominciò a comparire con sempre maggiore frequenza tra coloro che sfidavano l’ordine costituito.
SIMBOLO DI RIBELLIONE
Il cappello divenne presto un segno di riconoscimento tra cospiratori, ribelli, carbonari. Chi lo indossava non lo faceva più solo per necessità o per tradizione, ma per scelta, per appartenenza. Era un modo per dire: “Sono con loro, sono contro il potere che ci opprime”. Non a caso, nel 1847, durante i moti di Reggio e Gerace, la sua presenza fu notata e stigmatizzata tanto che Ferdinando II di Borbone ordinò una repressione spietata. I corpi degli insorti vennero esposti al pubblico ludibrio, le esecuzioni furono sommarie e la ferocia con cui furono trattati i rivoltosi dal cappello sovversivo fece guadagnare al sovrano il soprannome di “Re Bomba”. Un epiteto che evocava non solo il bombardamento della città di Messina nel 1848, ma anche il clima di terrore con cui tentò di soffocare ogni aspirazione alla libertà. Queste azioni, lungi dal domare lo spirito insurrezionale, contribuirono ad alimentare l’indignazione in tutta la Penisola. Le cronache dei giornali liberali dell’epoca riportavano con sdegno le fucilazioni di massa, gli arresti arbitrari, le torture. I caduti calabresi furono pianti non solo nella loro terra, ma anche a Milano, Torino, Genova. I salotti liberali del nord Italia iniziarono a guardare con ammirazione e rispetto a quei lontani compatrioti che, pur senza speranza di vittoria immediata, avevano scelto il sacrificio in nome della Patria.
Addirittura nei salotti milanesi le donne presero a indossarlo in omaggio a quelle lontane indomite contrade in lotta contro il Borbone. Da quel momento le autorità borboniche iniziarono a vietarne l’uso e la polizia papalina, per bocca di Monsignor Giuseppe Milesi Ferretti, redasse una circolare che, con toni preoccupati, segnalava la pericolosità del cappello di color bianco con nastri e bordature tricolori. Lo si definiva “non senza ammirazione dei buoni”, un modo per dire che persino i lealisti restavano colpiti dal carisma e dalla determinazione di chi lo portava. La svolta avvenne il 15 febbraio 1848, quando il barone Carlo Giusto de Torresani Lanzenfeld, direttore della Polizia dell’Impero Asburgico a Milano, firmò un decreto che proibiva l’uso del cappello in pubblico perché troppo «libertario». Il decreto non ebbe però l’effetto sperato: i milanesi, in piena tensione pre-rivoluzionaria, risposero con sarcasmo e sfida. Iniziarono a sollevare un lato della tesa dei cappelli comuni per ricordare i cappelli proibiti. Era l’ennesimo gesto silenzioso ma eloquente.
IL CAPPELLO ALL’ERNANI
Parallelamente, il cappello assumeva una nuova connotazione simbolica. Giuseppe Verdi, ispirandosi al dramma di Victor Hugo “Hernani”, portò in scena un protagonista che incarnava l’eroe romantico, il bandito-nobile che combatte l’ingiustizia. La prima dell’opera andò in scena al Gran Teatro La Fenice di Venezia nel 1844. Ernani indossava un cappello dalle larghe tese, con una piuma vistosa e un lato sollevato. Quella figura, così potente, entrò nell’immaginario collettivo. Il coro dell’opera divenne in breve un inno patriottico: “Si ridesti il Leon di Castiglia e d’Iberia ogni monte, ogni lito eco formi al tremendo ruggito. Sorga alfine radiante di gloria, sorga un giorno a brillare su noi. Sarà Iberia feconda d’eroi, dal servaggio redenta sarà”. Il pubblico identificava il Leone di Castiglia con il Leone di Venezia, e il nome “Iberia” con la futura Italia. Il cappello alla calabrese assunse anche il nome di “cappello all’Ernani”. Era la fusione perfetta tra arte e rivoluzione.
IL CAPPELLO CHE UNÌ L’ITALIA
Le notizie dell’uso di questo cappello si moltiplicano negli anni successivi. A Milano, durante le Cinque Giornate, uomini e donne lo portano con orgoglio sfoggiandoli abbelliti da coccarde coll’effigie di Pio Nono e richiami tricolori. Sempre nel corso delle insurrezioni di Milano leggiamo che: «I nostri birricchini si piacevano dileggiare i Croati e tender loro i più burlevoli tranelli. Accovacciati dietro le barricate facean loro uccidere dei gatti, o mettean segno del lor colpi dei cappelli alla calabrese inalberati sopra manichi da scopa». E ancora: «Ad onta di tutto ciò gli studenti di Pavia, che pei fatti ivi accaduti il 10 febbraio dovettero allontanarsi da quella Università, vennero a Milano portando cappelli alla Calabrese. Per questo la Polizia credevasi nuovamente attaccata, e nel giorno successivo non aveva vergogna di emanare, che erano proibiti i cappelli alla calabrese, alla Puritana, all’Ernani». In tutta Italia viene perseguito, censurato, vietato. Garibaldi lo adotta come il brigante Carmine Crocco, gli “zampitti” papalini lo indossano con spavalderia ed è portato sulla testa con fierezza da Trieste alla Sicilia. Anche all’estero comincia ad essere usato.
A Berlino e a Monaco di Baviera, viene considerato un simbolo sovversivo e chi lo indossa viene arrestato. I soldati della Legione Italica del 1849 ne fanno un segno distintivo. I volontari di Parma del 1859, nei disegni di Quinto Cenni, lo portano fieri. Cristina Trivulzio di Belgiojoso si fa ritrarre con esso, come a voler dire che anche una nobildonna può farsi portavoce della rivoluzione. Francesco Hayez, pittore simbolo del romanticismo italiano, nel celebre dipinto “Il Bacio“, attualmente custodito presso la Pinacoteca di Brera, a Milano, fa indossare al giovane amante un cappello alla calabrese. Quel gesto d’amore è anche un addio alla vita civile, un ingresso nella lotta, nella causa comune. È l’arte che diventa specchio del patriottismo. Eppure non è finita. Anche nel romanzo Cuore di Edmondo de Amicis è citato il cappello calabro: «Ci sono anche due fratelli, vestiti eguali, che si somigliano a pennello, e portano tutti e due un cappello alla calabrese, con una penna di fagiano».
DAL SIMBOLO DI RIBELLIONE ALL’ONORE MILITARE: IL CAPPELLO DEGLI ALPINI
Nel 1872 nasce il Corpo degli Alpini. Il 24 marzo 1873, con decreto n. 69, il ministro Magnani Ricotti stabilisce le caratteristiche della nuova bombetta alpina. È il cappello alla calabrese, rivisitato: tesa anteriore abbassata, tesa posteriore rialzata, e soprattutto la penna, simbolo di libertà. Il decreto lo rende parte dell’uniforme militare, ma il cuore simbolico resta quello. È il cappello della ribellione che diventa “istituzionalmente” il copricapo della difesa. Non subisce modifiche nemmeno con le riforme uniformologiche dovute al Ministro Luigi Mezzacapo nel 1876 e del Ministro Mazè de la Roche nel 1879. Anzi, la Bombetta fu adottata, anche dal Tiro a Segno Nazionale, fondato nel 1878, dalla Guardia di Finanza operante in montagna e da alcune Guide Alpine, segno che divenne veramente molto popolare, nonostante la poca praticità. Con l’atto n. 196 del 20 maggio 1910, il cappello in feltro grigioverde viene ufficialmente assegnato ai reggimenti alpini. Si definiscono materiali, forme, colori: ma l’anima è sempre quella. E allora è giusto ricordare. Ricordare che il cappello degli Alpini è figlio diretto di un copricapo ribelle. Che è calabrese nel sangue, nella forma, nello spirito. Che a ogni alpino che lo indossa, si affianca l’eco lontana di un popolo in lotta per la libertà.
UN SIMBOLO DIMENTICATO?
Oggi siamo tutti abituati a pensare agli Alpini con quel cappello in testa. Ma pochi sanno che dietro quella penna si nasconde il sacrificio di un popolo. I calabresi del 1844, dei moti del 1847, delle barricate del 1848, sono i padri simbolici di quel copricapo. I patrioti che sfidarono i Borbone, i soldati che combatterono nelle guerre di indipendenza, gli uomini e le donne che indossarono quel cappello come gesto politico e morale: tutti vivevano in quel gesto semplice e potente. La Calabria che regalò all’Italia un cappello e un sogno sembra, però, aver smarrito la sua voce ribelle. Lo spirito battagliero di quel cappello nato nei campi e nei borghi della Calabria, che un tempo infiammava salotti, barricate, piazze e opere liriche, oggi sembra sopito. La Calabria che un tempo offriva sangue, coraggio, cultura e simboli alla causa dell’Unità oggi fatica a ritrovare la sua voce da protagonista nella storia. Troppe volte relegata a periferia d’Italia, dimentica spesso di essere stata cuore pulsante della nascita della nostra nazione. Ma forse, riscoprendo il valore di un cappello, possiamo riscoprire il valore di un’identità. Non solo un pezzo di stoffa o feltro, ma un vessillo morale. Quel cappello può ancora insegnarci qualcosa. Ci ricorda che ogni gesto quotidiano, se carico di significato, può cambiare la storia, ritrovando anche quella forza interiore che ha reso grandi i nostri padri. E allora, questo articolo è per loro. Per chi non chinò la testa, ma la alzò, fiera, sotto un cappello alla calabrese. Perché la memoria è l’unica arma con cui possiamo costruire il nostro futuro. E forse, oggi più che mai, abbiamo bisogno di ricordare chi siamo stati per tornare a essere protagonisti della nostra storia.
Alfonso Morelli team Mistery Hunters
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Storia davvero affascinante e che pochi conoscono