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Il Tesoro di Cosenza: La Stauroteca Di Federico II

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Il Reliquiario della vera Croce, detto Stauroteca (dal greco Stauròs che significa Croce, e heke, che significa raccolta) o Croce bizantina o Croce di Federico II può essere considerato il tesoro più importante di Cosenza. Interessante e affascinante è la sua storia. Questa importante reliquia giunse a Cosenza il 30 gennaio del 1222, in occasione della cerimonia di consacrazione della Cattedrale dopo il devastante terremoto nel 1184, come dono dell’Imperatore Federico II Hohenstaufen di Svevia alla città: “una reliquia del legno della Croce custodita in una croce aureo-gemmata”. Nonostante non si sia in possesso di un documento che ne attesti la veridicità, la critica ritiene l’evento verosimile in considerazione della politica federiciana di unità del Regno Meridionale e dei suoi rapporti con l’arcivescovo Luca Campano, promotore della ricostruzione e della consacrazione dell’edificio. In seguito ad una recente rilettura del Liber usuum Ecclesiae Cusentinae composto da Luca Campano, si attesta l’uso di una croce-reliquiario nella liturgia del Venerdì Santo che fa riferimento alla Stauroteca e alla “crocetta d’oro” fatta baciare da Carlo V quando entrò nella città nel 1535 e annoverata nel 1695 da G. B. Pacichelli tra le reliquie della Cattedrale.

Da “Cæsar Semper Augustus”, Federico II ha la medesima visione laica del nonno materno calabro-normanno Ruggero II il quale gli ha lasciato oltretutto uno stato che è quasi un impero ma anche ereditato la potente visione unitaria dell’impero germanico dal nonno paterno Federico Barbarossa. Non vuole separare la corona imperiale da quella del regno dell’Italia meridionale, e con grande rammarico di papa Onorio III, continua ad operare in modo da annullare anche le resistenze feudali, adottando un sistema di governo che completa e razionalizza quanto di più innovativo proviene dall’esperienza politica dei nonni.  Lo “stupor mundi et immutator mirabilis”, lo stupore del mondo e il miracoloso trasformatore come ebbe a scrivere Matteo da Parigi.

Federico ha più volte rinviato una crociata già concordata e papa Onorio III invia alla corte di Palermo il legato apostolico Niccolò Chiaromonte, vescovo di Tuscolo e cardinale, con l’incarico di obbligare il regnante, sotto la minaccia della scomunica, a rispettare le promesse. Il legato ingiunge infine all’imperatore di partire immediatamente per recarsi a colloquio con il pontefice presso la nuova Abbazia cistercense di Casamari a Veroli. Federico è un pericoloso rivale del papato nel voler gestire il potere spirituale e temporale, e con la crociata il pontefice intende allontanarlo dall’Italia, forse per sempre.

È ormai inverno e Federico con la sua armata intraprende l’ennesimo viaggio nella penisola, cavalcando lungo le reliquie del cursus publicus ab Regio ad Capuam, nota anche come Via Popiliamostrandosi, alle popolazioni che incontra, in tutta la sua magnificenza imperiale. Tra intemperie e terribili tempeste si dirige a Veroli come gli ha chiesto il papa, ma vuole prima presiedere alla consacrazione della Chiesa di Cosenza, la città di Gioacchino da Fiore, confessore e guida spirituale di sua madre, Costanza d’Altavilla.

Nella capitale dei bruzi, sotto la guida dell’arcivescovo Luca Campano, discepolo e biografo di Gioacchino da Fiore e abate della Sambucina a Luzzi, sono tutti impegnati a completare la chiesa, ora Duomo di Cosenza, dopo diciotto anni di duro lavoro, così come sul vertice del Colle Pancrazio di riassettare il Castello normanno, ricostruito, come l’Ecclesia maior, dopo la distruzione della città causata dal terribile terremoto del 9 giugno 1184.

Il suono delle campane saluta il potente imperatore svevo e tutti in città assistono all’arrivo della corte, composta da principi, guerrieri musulmani, falconieri, scienziati, notai, musici e altri addetti alle mansioni più varie, tutti vestiti con un abbigliamento sfarzoso.  Ma è ancora più grande lo stupore dei cosentini al passaggio del serraglio imperiale composto da animali esotici come i leopardi e i ghepardi, giraffe, leoni ed elefanti, dromedari e cammelli con palanchini con tende che coprono alla vista donne velate misteriose accompagnate da giganteschi eunuchi neri.

Tra sacerdotium e imperium, Federico II è oggetto di esaltazione, quasi di culto. Le maestranze erigono nel cortile del castello padiglioni eleganti con tende in grado di ospitare l’imperatore e tutto il suo seguito. Chi è ammesso all’accampamento può meravigliarsi del fastoso banchetto e dalle rappresentazioni degli artisti provenienti da tutto il Mediterraneo e disquisire con l’imperatore di argomenti che vanno dall’imminente Terza età dello Spirito di Gioacchino da Fiore alla leggenda del tesoro di Alarico fino all’interpretazione dei versi della bibbia e altre questioni teologiche.

Federico di primo mattino si reca presso la grangia di San Martino di Canale a Pietrafitta dove Gioacchino da Fiore passò gli ultimi giorni della sua vita e successivamente venne sepolto.

È il 30 gennaio dell’anno 1222, nel sesto anno del pontificato di papa Onorio III, e in tutta Cosenza è un giorno di festa.  Federico entra nella chiesa, indossando una tunica crociata con un ampio manto blu ricamato in oro, perle, filigrane e smalti e porta in dono la stauroteca consegnandola nelle mani di Luca Campano. In questo modo si rinnovava, una tradizione risalente a Guglielmo II (1153-1189) che era solito omaggiare con preziose croci d’oro e argento le fondazioni ecclesiastiche del regno. Niccolò Chiaramonte non può fare altro che porgere l’apostolica benedizione all’imperatore e al suo seguito e rivolgendosi alla folla consacra solennemente la Cattedrale di Cosenza in quel particolare giorno cosicché i posteri ricordino per sempre questo avvenimento.

La storia critica della stauroteca  di  Cosenza – essa fra l’altro si può dire sia l’unica opera d’arte calabrese che possiede una vasta bibliografia – ebbe invece inizio  solo  alla  fine dell’Ottocento  quando  fu  presentata  all’Esposizione  di  Orvieto  (1896) ed è stata fin da subito oggetto di varie e contrastanti attribuzioni e datazioni.  Il silenzio perdurato fino  a  quel momento  è,  per certi  versi,  sorprendente. Nel commento a margine della mostra, Émile Bertaux riconobbe nella croce «la rivelazione più straordinaria  dovuta  all’Esposizione  (orvietana)»  e  ravvisò  in  essa «un’opera fatta a Costantinopoli, nell’epoca più florida dell’arte dello  smalto, verso i primi  anni  dell’XI  secolo». La traccia  segnata  dallo  studioso  francese  sulla provenienza orientale della stauroteca fu seguita negli anni successivi da tutti coloro che  si  occuparono  del  pregevole manufatto  e le uniche distinzioni  riguardarono  solo la cronologia del pezzo. Fu però  solo  a  seguito  della  presentazione  della  stauroteca all’Exposition internationale  d’art byzantine di  Parigi  del  1931 che il  dibattito  critico entrò  nel  vivo.  Zaloziecky   propose infatti  di  riconoscere  al  pezzo  un’origine siciliana  e  la  sua  ipotesi  fu  accettata  da  Lipinsky,  Hackenbrock   e  Haftmann, anche  se  il  giudizio  di  quest’ultimo,  espresso  nella  recensione  alla  Mostra Autarchica  Minerale  (Roma,  1939),  fu  in  parte  condizionato  dal  carattere  politico dell’esposizione.

Si delinearono  dunque  due  filoni  critici  principali:  il  primo,  sostenuto  in modo particolare  da  bizantinisti,  tese  ad  attribuire  la  croce‐reliquiario  a  manifatture costantinopolitane  o,  quanto  meno,  a  distinguere  tra  la  parte  di  oreficeria (occidentale) e gli smalti (orientali); il secondo, portato avanti perlopiù da specialisti italiani,  ricercò  l’origine  della  stauroteca  nell’ambito  dei  laboratori  siciliani  della corte normanna.   In tempi recenti l’opzione dell’origine occidentale dell’opera si è resa prevalente e sostenuta anche dalla sua esposizione alle importanti mostre sui Normanni  (Roma, 1994) e su Federico II e la Sicilia (Palermo,  1995). I problemi di attribuzione della croce cosentina, rimasti  a  lungo  centrali nella  disamina critica del manufatto,  non  appaiono decisivi  per il  corretto inquadramento del reliquiario  che si  dimostra comunque un’alta ed originale espressione dell’arte comnena, espressione massima dell’arte ellenistica, a prescindere  da  questioni  attribuzionistiche,  anche  se  è  del  tutto  lecito supporre  che il manufatto cosentino possa essere frutto di un maestro costantinopolitano chiamato nelle officine di Palermo e/o essere stata realizzata in età tardo-normanna nei laboratori regali siciliani ed è plausibilmente entrata in possesso di Federico II assieme al composito tesoro dei suoi predecessori.

Nonostante le lacune e le perdite, soprattutto la scomparsa di  tutti i fili  di  perle, che profilavano la croce all’esterno e i  singoli medaglioni, la stauroteca di  Cosenza emerge,  ancora  oggi, come uno  dei  vertici  più alti  della produzione dei  laboratori della  corte palermitana,  soprattutto  per il  sapiente  accordo  tra ciascuna  delle  sue parti. Se da un lato la croce affonda le proprie radici nella migliore produzione  costantinopolitana del  programma  figurativo dello  smalto  cloisonné, l’incastonatura di pietre preziose e di paste vitree entro un reticolato di cellette ad alveolo su lamina d’oro, la vera gloria artistica di Bisanzio almeno dal X secolo,  dall’altro  alcune peculiarità  iconografiche  e  stilistiche  la  connotano  indubbiamente  come  opera occidentale come  la  cosiddetta  filigrana  ‘a  vermicelli’  o  i  castoni  ‘a  cestello’ che conferiscono  all’intera superficie dell’opera un effetto di  brulicante  movimento  che,  per contrasto,  sottolinea la  fissità  delle immagini  a smalto. Sono certamente più coevi allo stile bizantino gli evangelisti, nei medaglioni laterali e la figura di Cristo, in quello centrale, mentre più vicino alla scultura gotica del 1200, sembra essere Cristo crocifisso per la resa della sua fisicità.

Calata in un contesto storico ed artistico preciso, la stauroteca di Cosenza appare dunque  nella  pienezza  del  suo  significato  di  manufatto  prezioso  per  la  corte,  di squisita  custodia  per  la  reliquia  della  Vera  Croce  e  di  veicolo  iconografico  di meditazione sui  temi  della  Passione di  Cristo  per  quei  pochi  eletti  che avevano  la possibilità di  tenerla tra le mani  e di  osservarla da vicino. È dunque espressione di un’epoca in cui  le arti suntuarie avevano  una vocazione alla rappresentatività della dignità — veicolata dai materiali preziosi, su tutti l’oro, lavorati e combinati insieme con sapienza — se non pari, quanto meno paragonabile a quella espressa dai cicli musivi delle principali chiese. Nella  stauroteca  affiorano,  in  una  sintesi  originale  di  eccellente livello,  le differenti  tendenze culturali  che caratterizzavano  la  Sicilia normanna sullo  scorcio del XII secolo.

La Stauroteca di Cosenza, così descritta, sembrerebbe una delle tante croci reliquario diffuse nella nostra penisola ed esposte nei più prestigiosi musei. Ma in realtà non è così. Ciò che rende tanto preziosa la Stauroteca di Cosenza è la preziosità della tecnica utilizzata per la sua realizzazione. (In questo link trovate la stauroteca in 3D http://www.museodiocesanocosenza.it/opere-360/360-stauroteca/). E’ alta cm. 26,2 e larga cm. 20,7. I medaglioni laterali misurano cm. 4,5 e il medaglione centrale cm. 5. E’ una Croce potenziata a schema cruciale quadrilobato in lamine d’oro ed orlo in filigrana. Fissata ad uno scheletro di legno, e ornata di smalti e gemme preziose. La Croce evidenzia una preziosa descrizione iconografica sul recto e sul verso. Da ambo le parti è presente l’iscrizione IC-XC, monogrammi del nome di Cristo.

Il recto presenta cinque medaglioni a smalto e sette placchette ornamentali a smalto: il disco centrale è più grande e ritrae l’immagine del Pantocratore, Cristo Signore assiso in trono, quelli laterali raffigurano gli Evangelisti per intero, seduti e nell’atto di scrivere: San Matteo (in alto), S. Luca (in basso), S. Marco (a sinistra), S. Giovanni (a destra); le placchette probabilmente rappresentano l’Albero della Vita. La disposizione dei medaglioni è stata ritenuta confacente a uno schema canonico-liturgico che, trovando affinità con quello architettonico-liturgico delle chiese ortodosse e protonormanne a cinque cupole, affermerebbe il carattere cerimoniale della stessa faccia.

Sotto l’immagine del Redentore, per contenere la reliquia della Croce, vi è un incavo cruciforme.

Il verso presenta quattro medaglioni a smalto e una placca cruciforme a smalto: la piastra centrale rappresenta Cristo Crocifisso con quattro chiodi (iconografia del Patiens) e si qualifica per l’accentuato plasticismo d’accezione puramente costantinopolitana. Lungo la linea dei bracci corre l’iscrizione greca lstaurosis (crocifissione);

il medaglione in alto rappresenta un arcangelo, forse Michele; i due laterali rappresentano la Vergine sulla sinistra e San Giovanni Battista in atteggiamento intercessore sulla destra, illustrati secondo i dettami dell’iconografia bizantina della Dèisis, cioè la preghiera della Madonna e del Precursore al fine di ottenere la clemenza divina; il disco inferiore rappresenta un altare con i simboli della Passione, della Resurrezione e dell’Eucarestia, le Arma Christi, con la scritta HC – TA (=la croce).

Il piedistallo a pianta ottagonale, tardo gotico in argento dorato arricchito con statuette, sul quale poggia la Stauroteca tramite un puntale, è stato realizzato da un orafo spagnolo tra la fine del ‘400 e i primi quattro decenni del ‘500.  Si può spiegare il motivo della possibile sostituzione dell’antica base, forse logorata dall’uso o andata perduta, con il ritorno del culto per la reliquia e della devozione alla Vera Croce in seguito al Concilio di Firenze del 1439. Infatti, risalgono a quest’epoca i numerosi rifacimenti e le aggiunte di importanti reliquiari bizantini importati in Occidente. Si è pure ritenuto che il cardinale Taddeo Gaddi – o un non meglio identificato cardinale Torquemada (Juan?) – al seguito di Carlo V, abbia regalato alla Cattedrale cosentina il bel piedistallo d’argento dorato in stile flamboyant che da allora sorregge il reliquiario e oggi costituisce, assieme al coevo e simile “Calice del Duomo”, uno dei pezzi più interessanti d’oreficeria spagnola presenti in Calabria.

La struttura interna della Stauroteca è in legno di acero, mentre il rivestimento esterno è composto da oro, pietre preziose e smalti. Il profilo del prezioso reliquiario, che doveva essere completato da un filo di piccole perle, insieme alla distribuzione delle gemme, rimanda a quello della Crux gemmata dalle estremità potenziate; queste, si allargano comprendendo medaglioni ornati ognuno da quattro castoni, in origine probabilmente impreziositi da gemme e ora ricostruiti, nel restauro del 1982, in numero di quaranta su tutta la superficie, del tipo “a cestello” realizzati con un filo d’oro ripiegato tante volte fino a formare una corolla – che trattengono un piccolo alamadino tagliato “a cabochon”. La concezione costruttiva e la decorazione del profilo delle due facce è identica, ma sul davanti la superficie dei bracci e arricchita da decorazione a filigrana disposta “a vermicelli”. La disposizione e la distanza delle strisce metalliche, atte a contenere lo smalto e dividere le sezioni colorate, delineano con efficacia le figure e il loro accamparsi nei medaglioni, esprimendo, fra l’altro, la morbidezza delle stoffe, sottolineando la struttura corporea dei personaggi e conferendo volume e vivacità icastica. Oggi è possibile visionare questo bellissimo e importantissimo tesoro nel Museo Diocesano collocato nel centro storico della città di Cosenza.

Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters

fonti: http://www.museodiocesanocosenza.it/la-stauroteca/ , http://www.ladeaeditori.it/federico-ii-a-cosenza-ita.html , http://www.incalabriatiguidoio.it/la-stauroteca-di-cosenza/ , http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it , Martinelli Stefano:La stauroteca di Cosenza.Iconografia, tecnica, stile, foto da internet.

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