Sin dall’antichità la Sila è considerata il “Gran Bosco d’Italia”, per il suo ricco e variegato patrimonio forestale. Strabone, nella sua opera “Geografia”, ne decanta la grandezza: “…E quella foresta che chiamano Sila, che produce la pece migliore che si conosca, detta pece brettia. È ricca di piante, e di acque e si estende per circa 700 stadi”, mentre Tito Livio in “Ab Urbe Condita” scriveva: “Qui il bosco sacro, protetto dagli alberi di una densa selva di abeti, ha al suo interno fertili pascoli”. Le popolazioni autoctone che abitavano le foreste primigenie, e successivamente i greci e i romani, sfruttarono le numerose risorse naturali, praticando soprattutto la caccia e la pastorizia, dedicando ampio spazio anche alla metallurgia e alla lavorazione della ceramica. Ma la storia ufficiale non ha ancora spiegato cosa ci fanno due titanici megaliti nascosti ai confini della Sila Grande,
che sfidano il tempo e le intemperie, aspettando la loro giusta collocazione e visibilità nel mondo archeologico. A circa 600 metri di altitudine, in località Incavallicata, appena fuori dal centro abitato di Campana, si trovano due maestose e gigantesche “statue di pietra”, a tre metri l’una dall’altra: l’Elefante e il Ciclope. Riscoperte da ormai venti anni, erano già note in passato, come riportato in uno scritto del ‘600 del vescovo Francesco Marino, il quale definisce una delle sculture “il gran colosso caduto al suolo a causa dei terremoti” e in una mappa del 1606 della Calabria Citra di Giovanni Antonio Magini, dove Incavallicata è definita con il toponimo “Cozzo delli Gigante”. Questa mappa fu talmente famosa nel 1600 da essere ricopiata con piccole variazioni da tutti i geografi europei del tempo e dunque si può trovare il “Cozzo delli Gigante” su un’infinita serie di mappe olandesi, francesi, belghe, inglesi, dal 1600 al 1769. Ma il Magini, astronomo e geografo di Padova, che lavorava per i duchi d’ Este, non venne mai in Calabria e secondo alcuni studi si evince che abbia copiato la sua carta da mappe e rilievi preesistenti, probabilmente dalle Cartapecore Aragonesi.
Di queste splendide e precise mappe, che furono incise tra il 1470 ed il 1515 per fini militari dai re aragonesi di Napoli, restano alcune copie depositate a Parigi ed altre all’ Archivio di Stato di Napoli e purtroppo il quadrante riguardante la Sila, dove probabilmente si trovava il toponimo, è andato perduto. Non ci sono certezze in merito alle origini dei due megaliti, infatti se da una parte “ufficialmente” vengono considerate strutture naturali modellate dai fenomeni atmosferici nel corso del tempo, tesi portata avanti dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici senza aver mai fatto un sopralluogo ufficiale, è altresì probabile che, dopo una serie di elementi storici e scoperte recenti, le forme siano frutto dell’ingegno umano. Ritenendole opere di scultura sono state formulate tre differenti ipotesi sulla loro datazione molto differenti tra loro. La prima, portata avanti da Carmine Petrungaro,
sarebbe in qualche modo legato allo sbarco di Pirro in Calabria, avvenuto nel 281 a.C., quando il re dell’Epiro, giunto sul posto scortato da una mandria di elefanti da guerra conquistò questi territori (supposizione avallata dal fatto che nella zona dell’Invallicata sono stati rinvenuti reperti e monete che, oggi, sono custoditi all’interno del Museo di Reggio Calabria). I romani quando videro per la prima volta questi “nuovi animali mostruosi” ne rimasero affascinati, ma anche spaventati tanto da definirli “i grandi buoi lucani”. Secondo questa teoria i megaliti sono un omaggio dell’antico popolo calabrese al grande re Pirro “il liberatore” ed ai suoi strani animali, quasi divini, testimonianza di un incontro storico da non dimenticare. La seconda ipotesi non si discosta di molti anni dalla prima, sostenendo che siano state realizzate dai soldati cartaginesi agli ordini di Annibale durante la Seconda Guerra Punica verso la fine del III secolo avanti Cristo. A differenza di Pirro, Annibale avrebbe soggiornato per lungo tempo nel Bruttium, ma dopo la discesa delle Alpi, pare avesse solo un elefante, poiché dei trentotto esemplari con cui era partito, trentasette perirono.
Il riferimento degli elefanti di Annibale si ritrova tuttavia nelle zecche puniche africane e spagnole. Ma su queste monete si trova una raffigurazione dell’elefante diversa rispetto a quello delle pietre di Campana. Ma la statua silana non sembra rappresentare né un elefante di razza asiatica, come quello al seguito di Pirro, né di razza africana come quello di Annibale, sia per la forma delle orecchie che per quella delle zanne. Per questo motivo prende sempre più corpo l’ipotesi che le statue siano state realizzate e innalzate da una popolazione autoctona. Esiste infatti una terza tesi, portata avanti da Domenico Canino, che identificherebbe la statua del pachiderma con un Elephas Antiquus, una specie di elefante vissuta nel Pleistocene ed estinta circa 11.500 anni fa. La zanna, infatti, è rivolta verso il basso e seppur mutilata raggiunge la lunghezza di 180 cm, completa sarebbe stata 220 centimetri, proprio come quelle fossili ritrovate nel rione Archi di Reggio Calabria alcuni anni fa. I megaliti sarebbero dunque stati scolpiti in epoca preistorica.
Molte sono le testimonianze del fenomeno megalitico di civiltà rupestri in tutto il bacino del Mediterraneo e anche nell’area orientale della Calabria, che si affaccia sullo Jonio, esisteva una civiltà rupestre citata da antiche fonti greche come “Chones”. Il loro nome significa appunto “uomini delle caverne”, come quelle che si trovano ai piedi del sito archeologico di Campana e in tutto il territorio silano circostante, basti ricordare le tantissime grotte artificiali di Verzino, Casabona, Pietrapaola, Caccuri giusto per citarne qualcuna. Tale tesi è avvalorata dal ritrovamento nel 2017 del fossile intero, unicum in Europa, di un Elephas Antiquus nel lago Cecita, a circa 20 chilometri di distanza dai megaliti di Campana. La grande siccità dell’estate del 2017 in Calabria non ha portato solo roghi e problemi, ma anche un regalo. Alcuni archeologi della Soprintendenza erano stati chiamati nel fondo privato dei Greco, famiglia di imprenditori a cui appartiene un grosso appezzamento di terreno vicino al lago, per verificare il ritrovamento di presunte armi longobarde, ma il sopralluogo ha subito fatto emergere
qualcosa di ben più interessante. Per millenni tra il fango del fondale del Cecita si nascondevano i resti dell’antenato preistorico dell’elefante. Lo dicono le zanne leggermente arcuate, lunghe circa 3 metri e i frammenti diafisari che ricostruiscono un’altezza di 4 metri al garrese. Tutte caratteristiche tipiche della specie che ha abitato l’Europa nella preistoria, e ora sappiamo anche in Sila, proprio dove gli archeologi da sempre hanno portato avanti la tesi dell’impossibilità della presenza di questo pachiderma sull’altopiano calabro. Una scoperta fortuita, ma che già ha riscritto la storia della Silva Brutia. Dobbiamo immaginare l’altopiano silano non come appare oggi, una immensa foresta, bensì costituito da una diffusa savana con alberi di basso fusto e enormi praterie d’erba. L’habitat naturale per uomini preistorici dediti alla caccia e alla lotta per la sopravvivenza. In questo mondo gli stessi elefanti costituivano probabilmente una fonte di cibo ed è facile immaginare quanto fosse preziosa la loro presenza, oltre che per l’alimentazione insieme ad altre specie cacciabili, anche per l’uso che poteva farsi dell’avorio per realizzare utensili e gioielli nonché come merce di scambio. Certo è che il Cecita era un paleolago in epoca antica, molti millenni prima del bacino artificiale realizzato nel 1927.
Chissà quanti tesori nasconde questo bacino! Sono stati asportati dal sito solo una zanna, un molare e altri frammenti, che sono in qualche magazzino in Molise o in Francia ad ammuffire aspettando un finanziamento della Regione Calabria che tarda ormai ad arrivare, mentre gran parte dello scheletro dell’elefante è ancora nascosto nella melma del lago. La Soprintendenza come detto non si è mai interessata veramente ai Giganti dell’Incavallicata ma se un giorno verrà confermata l’antropizzazione delle due enormi figure in pietra, esse potrebbero riscrivere la storia dell’umanità essendo le “statue più antiche al mondo”. Dal punto di vista geologico, le rocce dell’Incavallicata appartengono all’unità delle Arenarie giallastre e grigie a echinidi clipeastri di età Serravalliano-Tortoniano (Miocene medio-superiore), come desunto dalla Carta geologica d’Italia alla scala 1:100.000 del Servizio geologico d’Italia, foglio 230 Rossano, rilevato negli anni 1888-1890 dall’ing.
Cortese, uno dei più illustri geologi dell’allora Regio Ufficio geologico. Le intemperie ed il tempo hanno cancellato molti particolari delle statue, rendendole meno riconoscibili ad occhi non esperti. La prima figura somiglia ad un elefante, alto circa 5 metri, splendidamente scolpito. C’è solo una zanna ed un solo occhio sul lato sinistro e dall’altra parte c’è una forte cavità, quindi i particolari sono andati perduti, ma davanti c’è una testa con due orecchie, sinistra e destra, una proboscide che è un gioiello di modellazione scultorea su pietra. Gli scultori consultati privatamente dagli studiosi indipendenti affermano che sulla proboscide sono state effettuate le tecniche di “incisione, modellazione, stondatura e levigatura della pietra”. Ma l’elemento più importante, che toglie ogni dubbio è che l’elefante ha tutte e quattro le zampe emicilindriche ben modellate e visibili, due sul lato destro, due su quello sinistro. La zampa posteriore sinistra è ritratta in flessione ponderale che lo fa sembrare in movimento.
Nessun vento scolpisce in simmetria!!! In tal proposito, il giornalista Riccardo Giacoia, commentando i risultati delle perizie dei Beni Archeologici, ironizzò affermando che la Sila è accarezzata da anomali “venti michelangioleschi”. Dietro la zanna c’è un’altra protuberanza cilindrica spezzata che si protende verso il basso, la quale dà l’impressione di essere una gamba di un uomo in groppa all’animale, ma la statua nella sua parte alta è incompleta. La seconda è stata ribattezzata “Ciclope” o anche “Guerriero Seduto”, è alta sette metri ed è di interpretazione più difficile, ma forse rappresenta due gambe umane fino alle ginocchia, (poi la statua si interrompe poiché mutilata della sua parte superiore). Sarebbe stata nel complesso una figura davvero gigantesca. La posizione ricorda molto le statue di Memnone a Tebe e quelle di Ramses II nella facciata del Tempio di Abu Simbel in Egitto. I blocchi mancanti sono in parte andati perduti, in parte giacciono sul terreno circostante a qualche decina di metri di distanza. Sotto le due figure nel blocco di roccia sottostante sono state scavate due piccole grotte, testimonianza di una civiltà cavernicola. Ma non finisce qui. Non tutti sanno che il sito dell’Incavallicata si estende fino alla località Pietra Pertosa, dove è stata trovata una scultura di roccia calcarea scolpita con lo stesso metodo.
Si tratta di un altro enigma ancora tutto da decifrare: un “Mehnir Cavo”, molto raro in Europa. Pietra Pertosa in dialetto calabrese significa “pietra bucata”, toponimo che si ritrova anche nelle vecchie mappe geografiche dell’Istituto Geografico Militare, e probabilmente il nome del luogo è dato proprio da questo “manufatto”. Gli abitanti di Campana lo chiama “Il Serpente”, perché somiglia a quei cunicoli colorati presenti nei parchi giochi. Il Menhir Cavo è formato da un lungo cilindro di pietra dal diametro esterno di circa 1 metro e 20 centimetri, ora spezzato in più parti, scolpito ad anelli cavi, con lo scopo, presumibilmente, di alleggerire il peso, infatti il diametro del foro interno è di circa 80 centimetri. Sono presenti segni di taglio e di levigatura della pietra nelle superfici esterne e nelle giunzioni dei vari pezzi, mentre il frammento finale è una pietra a forma di punta che ancora oggi è presente nei cespugli che avvolgono tutto il luogo. Quando era eretto, arrivava ad un’altezza di circa 10 metri e svettava su tutta la vallata del fiume Nicà. Ora è abbandonato e nascosto nella folta vegetazione e solo appassionati come noi Mistery Hunters gli fanno visita, cercando di non fare perdere la sua millenaria storia. I menhir (dal bretone men e hir “pietra lunga”) sono
dei megaliti eretti singolarmente o in gruppi e con dimensioni che possono considerevolmente variare, anche se la loro forma è generalmente squadrata e alcune volte si assottigliano verso la cima. Sono stati eretti in diversi periodi nel corso della preistoria, ed erano creati ancora una volta nel contesto della cosiddetta “cultura megalitica”. Per appurare l’origine e la genesi di tutti questi misteriosi reperti sono necessari investimenti per nuove ricerche serie e mirate, fatte da studiosi con mente aperta e libera, che potrebbero finalmente svelare qualcosa di davvero importante per la nostra martoriata regione. La cosa incredibile è che queste sculture sono belle da togliere il fiato e potrebbero trasformare la zona in un’attrazione turistica riconosciuta a livello mondiale. Ma per ora sono solo un capolavoro nascosto che la Calabria si ostina a tenersi tutto per sé.











Alfonso Morelli team Mistery Hunters
(© All Rights Reserved)
[…] quanto riguarda I Giganti di Campana sembra essere proprio […]