Ipàzia nacque ad Alessandria tra il 355 e il 370 d.C. (la data non è certa) ed era figlia del matematico e filosofo Theon di Alessandria che la istruì al pensiero filosofico neo-platonico. Fu matematica e astronoma, sapiente filosofa, influente politica, profonda conoscitrice di musicologia, sfrontata e carismatica maestra di pensiero e di comportamento e, cosa assolutamente fuori dai canoni per l’epoca, completamente disinteressata alla religione e alla famiglia. Infatti, non fu mai madre né moglie, sentendosi già «sposata alla verità», e affermava che nessuna religione potesse essere adatta ad uno scienziato, perché la religione impone dei limiti al pensiero umano, e uno studioso non può avere limiti se vuole inseguire il sapere. Fu bellissima e amata dai suoi discepoli, pur respingendoli sempre. Fu fonte di scandalo e oracolo di moderazione. La sua femminile eminenza accese sia l’invidia da parte dei potenti cristiani portandola poi alla morte, ma anche la fantasia di poeti e scrittori di tutti i tempi, che la fecero rivivere nelle loro opere. Ipazia insegnò ininterrottamente ad Alessandria per più di vent’anni. I suoi scritti sono andati perduti o incorporati in pubblicazioni di altri autori ed è difficile ricostruirne il pensiero. Conosciamo tuttavia alcuni frammenti di commenti che sono riconducibili a lei:
- Commentario sui tredici volumi dell’ ”Aritmetica di Diofanto” (Il sec.), cui si devono lo studio delle equazioni indeterminate, le diofantee, e importanti elaborazioni delle equazioni quadratiche. Nel suo commento, Ipazia sviluppò soluzioni alternative a vecchi problemi e ne formulò di nuovi che vennero inglobati in seguito nell’opera di Diofanto.
- Commentario sugli otto volumi del “Le coniche di Apollonio di Perga” (III sec. a.C.), un’analisi matematica delle sezioni del cono, figure che furono dimenticate fino al XVI secolo quando vennero usate per illustrare i cicli secondari e le orbite ellittiche dei pianeti.
- Commentario, insieme al padre Theon, sull’ “Almagesto di Tolomeo”, un’opera in tredici libri che raccoglieva tutte le conoscenze astronomiche e matematiche dell’epoca.
Non essendoci per Ipazia un confine netto tra scienza e filosofia, che si fusero con lei in un’unica persona, non ci sono giunte nemmeno sue opere di stampo filosofico.
Sono piuttosto le testimonianze dei contemporanei a dare notizia della sua fama. Sinesio, lo studente venuto da Cirene e futuro vescovo di Tolemaide la chiama «madre, sorella, maestra e benefattrice», e le fonti del tempo la ritraggono come una scienziata e filosofa dai talenti insoliti che partecipa attivamente alla vita politica. Socrate Scolastico (380-450), di religione cristiana, di professione avvocato, nella “Historia Ecclesiastica” scrisse di lei: “Ad Alessandria c’era una donna chiamata Ipazia, figlia del filosofo Teone, che ottenne tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola di Platone e di Plotino, lei spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali venivano da lontano per ascoltare le sue lezioni. Come unica erede e capostipite della scuola platonica, ella applicava perfettamente questa dottrina: partire dalle scienze matematiche per raggiungere la conoscenza della “Vera Filosofia”, quella più alta e pura. Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini, infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale”.
Nelle “Cronaca di Giovanni” del vescovo cristiano di Nikiu leggiamo: “In quei giorni apparve in Alessandria un filosofo femmina, una pagana chiamata Ipazia, che si dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica e che ingannò molte persone con stratagemmi satanici. Il governatore della città l’onorò esageratamente perché lei l’aveva sedotto con le sue arti magiche. Il governatore cessò di frequentare la chiesa come era stato suo costume. E non solo fece questo, ma attrasse molti credenti a lei, ed egli stesso ricevette gli increduli in casa sua”. Damascio (480-550), pagano, filosofo neoplatonico e ultimo direttore della Accademia di Atene, soppressa dall’imperatore Giustiniano nel 529, scrisse nella “Vita di Isidoro”, poi ripresa anche nel Suda, l’ enciclopedia bizantina del X secolo: “Ipazia nacque ad Alessandria dove fu allevata ed istruita. Poichè aveva più intelligenza del padre, non fu soddisfatta dalla sua conoscenza delle scienze matematiche e volle dedicarsi anche allo studio della filosofia. La donna era solita indossare il mantello del filosofo ed andare nel centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele, o i lavori di qualche altro filosofo per tutti coloro che desiderassero ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell’insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica. Fu giusta e casta e rimase sempre vergine. Lei era così bella e ben fatta che uno dei suoi studenti si innamorò di lei, non fu capace di controllarsi e le mostrò apertamente la sua infatuazione. Alcuni narrano che Ipazia lo guarì dalla sua afflizione con l’aiuto della musica. Ma la storia della musica è inventata. In realtà lei raggruppò stracci che erano stati macchiati durante il suo periodo mestruale e li mostrò a lui come un segno della sua sporca discesa e disse, “Questo è ciò che tu ami, giovanotto, e non è bello!”. Alla brutta vista fu così colpito dalla vergogna e dallo stupore che esperimentò un cambiamento del cuore ed diventò un uomo migliore. Tale era Ipazia, così articolata ed eloquente nel parlare come prudente e civile nei suoi atti. La città intera l’amò e l’adorò in modo straordinario, ma i potenti della città l’invidiarono, cosa che spesso è accaduta anche ad Atene. Anche se la filosofia stessa è perita, il suo nome sembra ancora magnifico e venerabile agli uomini che esercitano il potere nello stato”.
La filologa Silvia Ronchey nei suoi studi ci fa vedere Ipazia immersa nella vita pubblica della città: “Oltre all’insegnamento pubblico (demosia) che teneva presso il Museo o altrove nel centro della città, sappiamo di riunioni “private” (idia) che teneva nei giardini rigogliosi della sua dimora, che portavano Ipazia al centro della vita non solo culturale ma anche politica di Alessandria insieme alle élite pagane della città, convertite al cristianesimo per necessità, dopo i decreti teodosiani, ma unite dalla volontà di conservare le proprie tradizioni e convinzioni. Quell’ ”educazione ellenica” che si chiamava ancora “paideia”, quel “modo di vita greco” che il discepolo prediletto di Ipazia, Sinesio, definiva: «Il metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente. I capi politici venuti ad amministrare la polis erano i primi ad andare ad ascoltarla a casa sua. Perché, anche se il paganesimo era finito, il nome della filosofia sembrava ancora grande e venerabile a quanti avevano le massime cariche della città». Anche il prefetto augustale Oreste apparteneva a quella cerchia più riservata, se non segreta, in cui Ipazia prodigava insegnamenti che le valevano gli appellativi sacerdotali di “supremo giudice” e “signora beata dall’anima divinissima”. A quella cerchia Ipazia impartiva un insegnamento sommesso particolarmente utile in quei tempi di transizione. Non era necessario tradire la propria fede. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Le religioni non dovevano lottare tra loro perché non differivano l’una dall’altra se non in dettagli fiabeschi destinati ai più semplici. I miti degli dèi dell’Olimpo pagano, i dogmata o credenze “vulgate” dell’insegnamento cristiano, tra cui quella sulla resurrezione della carne, erano destinati a chi non era “filosofo”. «Riguardo alla resurrezione di cui tanto si parla sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo», scrive in una delle sue lettere Sinesio che ricordiamo in seguito diventò vescovo cristiano di Tolemaide. Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici. Era una politica lei stessa. Le fonti la descrivono «eloquente e persuasiva (dialektike) nel parlare, ponderata e politica (politike) nell’agire, così che tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione e le rendeva omaggio». Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente. Ipazia interveniva in senso pacificatore negli affari della città e principalmente nelle lotte religiose che la insanguinavano. Difendeva, influenzando direttamente in questo il prefetto augustale Oreste, i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal devastante pogrom ordinato da Cirillo, la cui azione politica aveva due linee ben precise: la lotta economica contro gli ebrei, che dominavano il trasporto del grano da Alessandria a Costantinopoli, e la tendenza a «erodere e condizionare il potere dello Stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale», come riportano le fonti. Solo questo la tolleranza filosofica di Ipazia non sopportava, e su questo l’Ipazia politica era inflessibile quanto era flessibile l’Ipazia filosofa: l’ingerenza di qualunque chiesa sul potere laico dello Stato”.
Ipazia si occupò anche di meccanica e di tecnologia applicata. Le vengono attribuite due invenzioni: un areometro e un astrolabio piano. Il primo strumento, che determina il peso specifico di un liquido, fu progettato come un tubo sigillato avente un peso fissato ad un’estremità: a seconda di quanto questo tubo affondava in un liquido, era possibile leggerne su una scala graduata il peso specifico. L’astrolabio progettato da Ipazia era formato da due dischi metallici forati, ruotanti uno sopra l’altro mediante un perno rimovibile: veniva utilizzato per calcolare il tempo, per definire la posizione del Sole, delle stelle e dei pianeti. Pare che mediante questo strumento Ipazia abbia addirittura risolto alcuni problemi di astronomia sferica.
Se poco si sa della vita di Ipazia, non mancano i dettagli circa la sua morte. Il 30 aprile del 311 Galerio, a nome anche di Costantino e di Licinio, emanò l’editto di Nicomedia. Galerio decretò la fine degli editti di Diocleziano, riconobbe ai cristiani libertà di culto e di riunione, restituì alle chiese i beni non ancora alienati dopo la confisca e ordinò la ricostruzione delle chiese. Il cristianesimo divenne ufficialmente “religio licita”. In ottant’anni i cristiani riuscirono ad impadronirsi del vertice dell’Impero Romano e si trasformarono in accaniti persecutori dei fedeli di quella religione i cui valori avevano dato vita alla grandezza di Roma e dell’Impero. Con Teodosio I il cristianesimo divenne religione di stato e, nel 392, la religione romana venne proibita, pena la morte. La distruzione dei templi ellenici, voluta proprio dall’imperatore Teodosio I, fu messa diligentemente in atto dal vescovo Teofilo. Questo attacco così altamente simbolico, è seguito da un breve periodo di tregua, che vide Ipazia ancora libera e influente.
Ipazia vedeva nel cristianesimo soprattutto il fanatismo e la violenza, in quanto il vescovo Teofilo aveva fatto distruggere, oltre a vari monumenti della civiltà greco-orientale, anche il famoso tempio di Serapide e l’annessa biblioteca. A Teofilo, morto nel 412, succede il nipote Cirillo, assai più bellicoso, il quale si dota di una milizia privata (i parabalani) e dopo uno scontro forse pretestuoso fra ebrei e cristiani, caccia gli ebrei dalla città. I pagani sanno che il loro turno sta per arrivare quando, nel 414 il prefetto Oreste, estimatore di Ipazia e inviso al vescovo, viene aggredito da un gruppo di monaci e ferito. Il colpevole, Ammonio, è condannato a morte, ma Cirillo gli organizza funerali in pompa magna e lo proclama martire. Chiamò a raccolta tutti i cristiani che marciarono in collera verso le sinagoghe degli ebrei e ne presero possesso, le purificarono e le convertirono in chiese. Una di esse venne dedicata a San Giorgio. Saccheggiarono tutte le loro proprietà e li derubarono completamente. Il prefetto Oreste non fu in grado di portare loro alcun aiuto. Ipazia aveva tutte le caratteristiche per essere odiata dai cristiani ed essere la prossima vittima: donna, pagana, scienziata di grande fama e guida della scuola filosofica neoplatonica di Alessandria.
In questi tempi in cui il Medio Oriente è percorso dal terrore dell’integralismo islamico e insanguinato da episodi massicci e cruenti di persecuzione religiosa, non è facile ma è importante ricordare che la chiesa cristiana ai suoi inizi si macchiò di una violenza integralista per molti versi affine, come quella dei parabalani, i monaci-barellieri, di fatto miliziani clericali che massacrarono Ipazia, la fecero a pezzi e diedero i suoi resti alle fiamme. Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino. Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa. Nella celebrazione che ne ha fatto nel 2007 Benedetto XVI ha elogiato “la grande energia” del suo governo ecclesiastico. Anche se alcuni intellettuali cattolici hanno invitato, se non alla decanonizzazione, alla cautela, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata edificata a Roma nel quartiere di Tor Sapienza.
La descrizioni di quei drammatici giorni la lascio ancora una volta a chi in quei tempi ha vissuto questo straziante fatto. Socrate Scolastico scrisse: “Fu vittima della gelosia politica che a quel tempo prevaleva. Ipazia aveva avuto frequenti incontri con Oreste. Questo fatto fu interpretato calunniosamente dal popolino cristiano che pensò fosse lei ad impedire ad Oreste di riconciliarsi con il vescovo. Alcuni di loro, perciò, spinti da uno zelo fiero e bigotto, sotto la guida di un lettore chiamato Pietro, le tesero un’imboscata mentre ritornava a casa. La trassero fuori dalla sua carrozza e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum, dove la spogliarono completamente e poi l’assassinarono con delle tegole. Dopo avere fatto il suo corpo a pezzi, portarono i lembi strappati in un luogo chiamato Cinaron, e là li bruciarono. Questo affare non portò il minimo obbrobrio a Cirillo, e neanche alla chiesa di Alessandria. E certamente nulla può essere più lontano dallo spirito del cristianesimo che permettere massacri, violenze, ed azioni di quel genere. Questo accadde nel mese di marzo durante la quaresima, nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il decimo consolato di Onorio ed il sesto di Teodosio”.
Damascio incolpò proprio Cirillo dell’assassinio di Ipazia:” Così accadde che un giorno Cirillo, vescovo della setta di opposizione [il cristianesimo], passò presso la casa di Ipazia, e vide una grande folla di persone e di cavalli di fronte alla sua porta. Alcuni stavano arrivando, alcuni partendo, ed altri sostavano. Quando lui chiese perché c’era là una tale folla ed il motivo di tutto il clamore, gli fu detto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia il filosofo e che lei stava per salutarli. Quando Cirillo seppe questo fu così colpito dalla invidia che cominciò immediatamente a progettare il suo assassinio e la forma più atroce di assassinio che potesse immaginare. Quando Ipazia uscì dalla sua casa, secondo il suo costume, una folla di uomini spietati e feroci che non temono né la punizione divina né la vendetta umana la attaccò e la tagliò a pezzi, commettendo così un atto oltraggioso e disonorevole contro il loro paese d’origine. L’Imperatore si adirò, e l’avrebbe vendicata se non fosse stato subornato da Aedesius. Così l’Imperatore ritirò la punizione sopra la sua testa e la sua famiglia tramite i suoi discendenti pagò il prezzo. La memoria di questi eventi ancora è vivida fra gli alessandrini”.
Anche il vescovo di Nikiu parla della morte di Ipazia: ”Poi una moltitudine di credenti in Dio si radunò sotto la guida di Pietro il magistrato, un credente in Gesù Cristo perfetto sotto tutti gli aspetti, e si misero alla ricerca della donna pagana che aveva ingannato le persone della città ed il prefetto con i suoi incantesimi. Quando trovarono il luogo dove era, si diressero verso di lei e la trovarono seduta su un’alta sedia. Avendola fatta scendere, la trascinarono e la portarono nella grande chiesa chiamata Caesarion. Questo accadde nei giorni del digiuno. Poi le lacerarono i vestiti e la trascinarono attraverso le strade della città finché lei morì. E la portarono in un luogo chiamato Cinaron, e bruciarono il suo corpo. E tutte le persone circondarono il patriarca Cirillo e lo chiamarono ‘il nuovo Teofilo’ perché aveva distrutto gli ultimi resti dell’idolatria nella città”.
Dopo l’assassinio di Ipazia i suoi allievi abbandonarono la città. Alessandria perse definitivamente il suo ruolo di centro culturale. Alessandria era stata, fin dal tempo dei Tolomei, un grande centro culturale. Basti ricordare che vi avevano studiato e insegnato Eratostene, Archimede, Euclide, Tolomeo, Plotino. Nel 415 d.c. perse anche l’ultima scienziata eminente di quell’epoca. L’antica filosofia e scienza ellenistiche vennero riscoperte soltanto nel Rinascimento, un millennio dopo. Fu celebrata e idealizzata, ma anche mistificata e fraintesa. Da allora Ipazia scompare dalla storia, se non per prestare alcune sue doti a santa Caterina di Alessandria. Nel Settecento, ricompare in una disputa tra cattolici ed anglicani inglesi: di “facili costumi” per i primi (che ci faceva, altrimenti, per le strade di Alessandria?), “vittima del fanatismo” per i secondi, così come nella voce Eclectiques , dell’Encyclopédie e per Voltaire, Henry Fielding, Edward Gibbon e altri Illuministi. Nel poema epico ”Ipazia o delle filosofe” (1827), la contessa Diodata Saluzzo Roero tenta di ribaltare questa interpretazione. La sua Ipazia si converte al cristianesimo e muore da santa: «languida rosa sul reciso stelo, nel sangue immersa la vergine giacea, avvolta a mezzo nel bianco suo velo, soavissimamente sorridea, condonatrice dell’altrui delitto, mentre il gran segno redentor stringea». Similmente di bianco vestita, ma viva e fieramente pagana, l’aveva descritta in due delle sue “poesie antiche” il poeta rivoluzionario Leconte de Lisle: in “Hypatie, per colpa di un uomo nato in Galilea”, parla di Ipazia avente lo «spirito di Platone e il corpo d’Afrodite» e in Hypatie et Cyrille, invece il vescovo alla filosofa può offrire solo la scelta tra il silenzio e la vita. Nel celebre affresco di Raffaello, “La Scuola di Atene”, l’unica figura femminile rappresentata è proprio Ipazia, che è anche l’unica filosofa e alcuni critici sostengono che il suo volto sia quello di Francesco Maria della Rovere.
Ipazia compare nel teatro e nel romanzo dell’Otto e del Novecento, forse anche suo malgrado, perché facilmente le calzano i tratti della martire eroica, tanto più martire quanto più la sua autorevolezza intellettuale è indiscussa. Marcel Proust (All’ombra delle fanciulle in fiore), Umberto Eco (Baudolino), Hugo Pratt in un album di Corto Maltese le rendono omaggio, mentre prendono il suo nome associazioni di femministe, filosofe e scienziate. Nel XXI sec. l’autonomia femminile, come quella della ricerca scientifica, resta contrastata dall’autorità politica e religiosa come 1600 anni prima, e Ipazia non cessa di ispirare saggi, romanzi e polemiche come quelle attorno al film, del regista spagnolo Alejandro Amenàbar, Agorà. In una intervista il regista spiega: “Non ho mai avuto intenzione di attaccare i cristiani. Anche se mi definisco un ateo che non esclude la possibilità di qualcosa di superiore, sono stato educato secondo i principi del cattolicesimo e il mio film è cristiano perchè difende i principi cristiani della pietà e della compassione e avvicina il destino di Ipazia a quello di Gesù Cristo. Volevo mostrare al pubblico come nulla sia cambiato rispetto all’antichità, come ciò che i cristiani facevano all’epoca somigli al comportamento degli integralisti islamici di oggi. La gente continua a combattere e a morire per le proprie idee, giuste o sbagliate che siano”.
Ciò che caratterizza la figura di Ipazia, nel racconto della sua vita, risiede nella sua inclinazione al pensiero libero e inarrestabile: ogni aspetto della sua biografia appare agevolmente riconducibile ai suoi studi, al suo amore per la filosofia, intesa a sua volta come interrogazione del circostante. Caterina Annese, scrittrice, parla di come la figura di Ipazia viene presa oggi come punto di riferimento per i movimenti femministi: ”Vorrei accennare alle ragioni per cui il femminismo ed il pensiero di genere si impadronirono della sua figura, impiegandone appunto la summenzionata definizione di martire del pensiero in una chiave del tutto “personale”, ovvero quella connessa alle rivendicazioni dell’identità di genere. La figura di Ipazia è stata assunta dal pensiero di genere sia come capro espiatorio della violenza patriarcale, perpetuatasi a più riprese nel corso della storia, sia come esempio per quelle donne che intendano promuovere o condividere iniziative scientifiche e più ampiamente culturali. Ipazia diviene così, nell’immaginario di molte, baluardo della libertà di pensiero specificamente femminile, sfidando l’autorità maschile. Occorre a tal proposito tener conto del fatto che spesso il pensiero di genere si “impossessa” , nel vero senso della parola, di storiche figure femminili, al preciso scopo, più o meno dichiarato, di accreditare e avallare le proprie tesi, assegnando così un’ulteriore riferimento storico alle proprie rivendicazioni. D’altra parte, la libertà del pensiero costituisce una delle tematiche più care alle femministe, che, a partire dagli Women’s studies, hanno cercato di ripercorrere la costituzione del pensiero delle donne nella storia, cercando di “riesumare” figure di pensatrici spesso superficialmente cancellate e oscurate dall’onnipresenza del pensiero maschile.”
E continua: “La libertà di Ipazia diventa così, per tutta la tradizione di studi sulle donne, un evento espressamente politico e di genere: una sorta di variabile impazzita che esplode in seno all’ordine sociale e simbolico di stampo patriarcale, attraverso la sua autoaffermazione, o come dichiara la Arendt, attraverso il proprio gioco nel mondo. Sempre per le femministe, Ipazia ripresenterebbe il ruolo che la donna rivestiva millenni addietro: la sacerdotessa della Madre Terra, che con gli strumenti del Sapere e della Logica riesce a trasmettere ai suoi simili le Verità dell’Universo. In questo senso Ipazia era facilmente assimilabile ad una strega, come definita nel Malleus Maleficarum, sebbene, in realtà, non fosse null’altro che una donna colta, consapevole e desiderosa di aiutare l’altro con le sue arti. Da quanto sinora tratteggiato, sorgerebbe a mio avviso un’ulteriore questione: occorre ricordare Ipazia esclusivamente in quanto donna, come vorrebbero le femministe, oppure soprattutto in quanto intellettuale, pensatrice, astronoma, prescindendo cioè dalla sua identità di genere? Mi domando peraltro come mai, tenuto conto dell’indubbia rilevanza della ricerca della verità e dell’agire nel mondo condotti da Ipazia, sinora, o perlomeno prima dell’uscita del film Agorà in Italia, la sua figura sia stata ricordata solo dal pensiero di genere. Mi chiedo, cioè, perché non siano stati i filosofi di professione, posto che ne esistano, “in genere” e non “di genere”, a interrogarsi sulla sua figura, sulla sua carica simbolica. Sono pertanto dell’avviso che Ipazia dovrebbe essere ricordata non in quanto “donna martire”, ma in quanto filosofa tout court, ovvero per il suo pensiero piuttosto che esclusivamente per il suo genere. In tal modo peraltro si accredita una certa vulgata non certo trascurabile secondo cui “la libertà della donna la si fa esclusivamente in funzione dell’uomo”, ovvero rientra nelle retoriche, più o meno manifeste, di una certa fallocrazia imperante”.
Alfonso Morelli – Team Mistery Hunters