L’ alchimia è una scienza ed una corrente di pensiero che trova le proprie origini nell’animismo più arcaico e che nei prossimi millenni che precedettero la venuta del Cristo si sviluppò in Cina secondo un sistema organizzato che diede origine al Taoismo e a diverse correnti mistiche in India.
Più vicina a noi per tempi e luoghi prende piede in medio oriente e così come la si conosce oggi viene importata in Europa durante le crociate. Nell’ idea collettiva corrente, parlando di alchimia si pensa a qualcosa di misterico e incomprensibile…qualcosa da cui i nostri preti ci consigliano di stare alla larga, eppure… eppure la Chiesa, nel periodo in cui più ha goduto della massima autorità, vale a dire nel Medioevo, ed in cui ha esercitato la massima repressione, il Rinascimento, proprio essa ha utilizzato canoni e saperi di quella scienza che apertamente condannava, per l’ edificazione delle proprie chiese, di ogni edificio sacro, che grazie alla competenza di tecnici la cui maestria è andata perduta, risultano ancora oggi veri baluardi insuperabili d’alta ingegneria e conoscenza. È oltretutto doveroso puntualizzare che soprattutto nel Medioevo i dettami di quest’ “Arte sacra”, erano detenuti dalla Chiesa e conosciuti elementarmente da tutte le categorie sociali: “Nobiltà, alta borghesia le si dedicano. Sapienti, monaci, principi e prelati la professano, e nessuno è immune, persino tra coloro che esercitano un mestiere, o tra i piccoli artigiani, orefici, gentiluomini, vetrai, smaltatori, farmacisti dall’irresistibile desiderio di maneggiare la storta. Anche se non si lavora alla luce del sole, -l’autorità regale perseguita i soffiatori e i papi scagliano fulmini contro di essi (nel 1317 papa Giovanni XXII lancia contro gli alchimisti la Bolla Pontificia “Spondent Pariter”, seppur egli stesso sia stato autore del manuale alchemico intitolato “Ars trasmutatora metallorum”) – non per questo si trascurava di studiare di nascosto. Le società di filosofi, vere o false, sono avidamente ricercate.” Questo è quanto ci racconta il Grande Fulcanelli, nostra maggiore fonte d’ informazioni al riguardo.
Egli definisce “dimore filosofali” “qualsiasi supporto della Verità ermetica, qualunque fosse la sua natura e la sua importanza”, dunque, mentre gli scritti possono subire modifiche, il linguaggio simbolico resta, come linguaggio universale, basta saperlo interpretare conoscendone i codici. Conoscendo il contesto culturale che lo ha prodotto, coniato o soltanto tramandato. Lo sbaglio di molti che si danno all’interpretazione di certi linguaggi, è quello di attribuire ad un simbolo significati sviluppati in una certa cultura, in luoghi e tempi specifici, ad altri che trovano spazio in contesti completamente diversi. Non stiamo parlando dunque di archetipi, ma di forme ben determinate che vanno assolutamente contestualizzate. Son queste le premesse con cui analizzeremo il portale della Chiesa di San Giovanni, nel paese di San Salvatore, a Reggio Calabria. Questo portale si pensava fosse appartenuto alla Cattolica di San Nicola (l’ appellativo di “cattolica” è usato dagli ortodossi per definire quello che in ambito cattolico è la sede di cattedra vescovile, quindi “cattedrale”. Infatti nelle chiese di Sant’Agata vigeva il rito greco), chiesa protopapale della città di Motta Sant’ Agata: in realtà il precedente parroco, Don Mimmo Rodà, riferisce che il portale fu semplicemente riposizionato nella sua sede originaria all’ atto della ricostruzione della chiesa di San Giovanni negli anni ’30, diruta nel terremoto del 1783 che sconvolse l’ assetto dello stretto reggino e che fu anche causa della distruzione di Sant’ Agata, e della “Cattolica” stessa. Il territorio che dipendeva dall’ amministrazione agatina era ancor più grande di quello sotto gestione di Reggio, che le era limitrofa, e mentre la roccaforte crollò, i territori circostanti continuarono a sussistere con una tenace ripresa. Assieme a Cataforio, San Salvatore è il cuore vivo della tradizione agatense (oltre Gallina, sito in cui la nobiltà agatense si trasferì dopo il disastro), ed ivi troviamo due chiese attive: quella di Sant’Antonio, più antica, del XVII secolo, e San Giovanni, riedificata nel XIX, contenete il portale , oggetto del nostro speculo. In generale, i portali delle chiese hanno un compito di massima importanza, perché fungono da vero e proprio biglietto di presentazione ai visitatori: in essi di solito è raffigurata con altorilievi, bassorilievi o incisioni, e con un efficace simbolismo, il principio della “parola” di cui l’ edificio è portatore. Le misure del portale agatino sono di m 4,56 d’ altezza e 3,28 in larghezza, ai massimi estremi (guardare schizzo autografo). È inoltre facilmente notabile come l’altezza del timpano, in sommità al portale si ripeta quasi perfettamente per altre due volte lungo la parte quadrata sottostante (questo tipo di rapporto architettonico chiamato “Sesquialteria”, sintetizzato da Leon Battista Alberti, è assieme a quello aureo, tra i più applicati nel Medioevo e Rinascimento), composta sia a destra che a sinistra del portone, da due pilastri in pietra scolpita che lo sorreggono. Ciascuno di essi presenta in rilievo due aggraziate colonnine distanziate da uno spazio nudo che dà respiro e slancio verticale a questo elemento portante della struttura, che risulta semplice ma raffinato.
La colonna esterna al pilastro sporge maggiormente rispetto a quella interna, sia per la condizione strutturale, sia perché è scolpita con un più evidente altorilievo. Esse sono prive di capitelli alla base, mentre quelli superiori hanno decorazioni simili, ove si distinguono le classiche foglie d’ acanto (figura 2), che risultano molto rigogliose e scendono giù con una forma stilizzata di conchiglia che ricorda quella che i pellegrini e i Santi eremiti e taumaturghi eran soliti portare al collo. La zona di Sant’ Agata era sede di diversi romitori basiliani, e tra vari personaggi che la frequentavano spicca San Cipriano, noto mago e terapeuta. Il simbolo della conchiglia, soprattutto l’ammonite, è quello che rappresenta per eccellenza la “Sezione Aurea”, il cui canone, ripreso dalle architetture sacre medioevali è utilizzato dalle più grandi civiltà del passato come sezione perfetta riscontrabile anche in natura, perciò tratto ed applicato su basi filosofiche dall’ uomo stesso. La sua regola è che “la parte più piccola sta alla più grande come quest’ ultima alla somma delle due”. La conchiglia in questione però non è un’ ammonite, ma una “Pecten”, ed ha un significato più pertinente al contesto del portale e rappresenta il contenitore dell’ acqua santa (la troviamo infatti in questo suo esplicito significato, come elemento decorativo principale dell’ acquasantiera della chiesa di Sant’ Antonio, cento metri distante dalla nostra. Ad essa dedicheremo uno spazio a parte, in futuro); essa è il principio femminile colmo della sua essenza, nell’ atto del ricevere. Il ricettacolo, appunto, dell’ acqua alchemica. Su di essa, Venere (soggetto minerale della realizzazione alchemica) solca le acque del mare ermetico dalle quali nasce, sulla spuma schiumeggiante, proprio nel momento in cui sono più agitate, e affiora, galleggiando in superficie. Venere stessa è identificabile nell’ elemento schiumoso ed il suo nome è sinonimo dell’ originale “Bava di Drago”, ed è generata dalla putrefazione del mercurio, e perché tale putrefazione avvenga occorre un minerale che agisca su di esso. Il Salnitro occupa in questo principio un posto importante. Nitro, dal greco “nizo”, da “lavare”; sarebbe il potassio, il quale è appunto utilizzato per fare il sapone. Il salnitro, che fondendo si trasforma parzialmente in potassio, alcalinizzandosi produce quella schiuma riferibile alla Bava di Drago, anticamente chiamato “Sale di tartaro”, dal greco “trux”, che significa “feccia di vino”, “scoria”, “sedimento”. Il verbo che se ne trae dal sostantivo è “trugo”, che vuol dire “seccare”, “disseccare”, facendo così riferimento all’ azione del fuoco, nel nostro caso, il fuoco ermetico, principale artefice della Grande Opera.
Alla base del capitello sono scolpiti in bassorilievo dei tulipani, in sequenza, parzialmente sovrapposti ad altri in un piano più avanzato. Ognuno di essi sboccia su di uno stelo fra due foglie che si aprono lateralmente e ricordano in questo anche il giglio, la cui iconografia è simbolo del sovrano, immagine di Dio in terra e rappresenta il ciclo del tempo, negli aspetti della morte e della rigenerazione, Luna e Sole, Notte e Luce.
Le strombature dei pilastri che sorreggono l’ arco e il timpano sono formate da cinque blocchi rettangolari di pietra arenaria scolpita con significanti figure, e di cui, i primi quattro dalla base, si stagliano come parallelepipedi verticali , mentre gli ultimi in alto, rispettivamente sui due lati, li sovrastano orizzontalmente: anche essi scolpiti, portano nella rosa canina a cinque petali ivi impressa e bene in vista, la firma enigmatica della scuola che li ha prodotti (figura 3)… A questo punto si aprono delle serie considerazioni. Il Rotundo affronta l’ argomento del portale in questione scrivendovi un articolo per il numero 78 di Calabria Sconosciuta, attribuendo all’ opera natali duecenteschi. Orbene, stilisticamente esso non è databile al periodo citato dal professore, e senza ombra di dubbio l’ estetica che lo contraddistingue è da far risalire almeno a un paio di secoli a seguir quello. Se la struttura dà l’ impressione di essere romanica, lo stile decorativo, soprattutto quello delle strombature laterali, ci porta al quattrocento, cinquecento; sempre che, come è possibile, senza nulla escludere, non abbia subìto elaborazioni durante i secoli. Uno studioso d’ arte che si rispetti conosce bene i canoni di un determinato stile, soprattutto se questi è affezionato o interessato particolarmente a quel periodo storico, e così come un dotto linguista sa ben leggere o decifrare una lingua morta, così un serio conoscitore del medioevo sa leggere il linguaggio alchemico senza lasciarsi andare in divagazioni di ferventi fantasie (comuni a non pochi) o in asettiche, dotte, schematiche e sterili citazioni storiche o pseudo tali. Lo studio dell’arte è imprescindibile dalla conoscenza del contesto storico culturale in cui essa progredisce. Sappiamo dunque che la rosa selvatica scolpita in cima al portale su ciascuno dei due stipiti è la firma della scuola di scalpellini che ha eseguito il lavoro; questa la troviamo per certo anche in altri manufatti scultorei dell’area dello “Stretto di Messina” e non solo. Una testimonianza significativa ce la dà la “Chiesa degli
Alemanni” (poi divenuta “di Santa Maria Alemanna”) a Messina, edificata dai Cavalieri Teutonici nel 1220 sotto Federico II. Edificata in pieno stile gotico è un piccolo gioiello d’architettura, e come ogni chiesa gotica che si rispetti non vi mancano eccelse decorazioni scultoree, e fra queste
vi troviamo la già nota rosa canina (figura 4), perfetta, impeccabilmente simile per forma e dimensione a quella del nostro portale.
Dunque, il costruttore della “Chiesa degli Alemanni” è lo stesso del portale di San Giovanni?
È forse per questo che il Rotundo ha attribuito al 1200 la sua fattura. Sicuramente gli scalpellini che hanno agito a Messina appartenevano a quella stessa scuola che perdurando per certo sino al 1400-1500, ha effettuato la meraviglia agatense. troveremmo così applicati nelle chiesa di San Nicola e San Giovanni i principi di una delle correnti di pensiero e di scienza tra le più significative e fiorenti della storia dell’ umanità che trova nell’ imperatore Federico II il promotore e divulgatore (sono anche altri gli elementi che ci fanno supporre tale ipotesi, ed esulano da questi contesti).
Si tenga presente che a quei tempi queste scuole di cui parliamo erano delle vere e proprie confederazioni di cosiddetti “fratelli muratori”, maestranze che con svariate competenze erano gli elementi indispensabili nelle catene lavorative atte all’edificazione delle stupefacenti costruzioni dell’ Arte romanica e Gotica.
Altre analogie troveremo tra queste due chiese in seguito.
Così come appare oggi, anche il portale sembra aver subito cambiamenti diversi da quelli del logorio del tempo, che pure sono evidentissimi. Non sappiamo come apparisse ai tempi in cui decorava l’ entrata d’ una forse più superba struttura, nel XVII secolo, ma sicuramente nel suo complesso sarebbe stato leggermente più alto (di pochi centimetri) e di poco più largo, per i seguenti motivi: l’ arco interno del timpano è costituito da sette blocchi di pietra (figura 5), ciascuno recante il bassorilievo di un putto alato (faccia ed ali), di cui sei perfettamente adattati e capienti all’ interno dello spazio loro designato, mentre uno di loro, vale a dire quello centrale, in chiave di volta, risulta striminzito e smussato ai due lati, tanto da far mancare al soggetto la punta e le estremità delle due ali (figura 6).
Mancano almeno cinque centimetri da ambo le parti, e ciò significa che nel riutilizzo del portale nella sua attuale sede, esso è stato riadattato a nuove condizioni di misura.
Il putto in questione risulta monco; fosse stato concepito originariamente così, avrebbe avuto già in principio dimensioni più ridotte e lo scalpellino avrebbe eseguito la figura nella sua interezza, mentre la pietra è stata ridotta solo in seguito all’ esecuzione del bassorilievo effettuatovi sopra. In conseguenza a questa maldestra ma furba manovra di adattamento anche altri elementi hanno subito il medesimo trattamento per poter essere inglobati nella struttura, e si evince nelle pietre che compongono i due filari dell’ arco del timpano che si trovano in successione a quello preso finora in considerazione: anche lì, tra tutti i blocchi che in linea di massima hanno larghezze simili, si nota come da destra a sinistra, l’ ottavo dell’ arco centrale, e il secondo della cornice esterna, sono spropositatamente corti rispetto agli altri. Una mano esperta come quella che ha concepito il portale non sarebbe mai stata così approssimativa.
Inoltre, in seguito a questo la semicirconferenza dell’ arco non è perfetta e risulta infatti ogivale e schiacciata, riducendo, anche se di poco, l’ altezza dello stesso, compromettendo così il rispetto pieno del canone albertiano, come diversamente sarebbe stato nella sua conformazione originale. Difatti, moltiplicando per tre l’altezza dell’ arco (che dovrebbe essere la misura di riferimento), che corrisponde a 146 cm, si ottiene 438 cm; resta dunque uno scarto di 18 cm in totale, da ripartire fra le due rimanenti sezioni. Si può ipotizzare che anche l’ altezza del quadrato alla base del portale sia stata modificata per l’adattamento alla nuova sede, pur via ciò non esclude quanto riferito nella precedente analisi, infatti la semicirconferenza dell’ arco difetta, rendendolo anche a vista schiacciato, e se dal centro del suo diametro, tracciamo un ipotetico cerchio, il risultato palesa geometricamente scientifico, potendo constatare che la circonferenza delineata non combacia con la curva dell’architettura.
Altro elemento che ci rende orfani del messaggio principale che il portale ci voleva dare è l’ assenza dell’ illustrazione del timpano: è infatti la decorazione del timpano il vero e proprio fulcro di ogni portale, e nel nostro caso manca. Sarebbe anche potuto mancare già dal principio, ma questa risulterebbe un’ anomalia. Certo è che quello che adesso è visibile e riscontrabile è un blocco anonimo liscio ed evidentemente più nuovo del resto del complesso; oltretutto, conseguentemente il riadattamento del portale nell’ attuale sede, anche il timpano avrebbe richiesto una smussatura. A contorno di esso ci resta la teoria dei piccoli Eros che incarnano il principio vitale e creatore; abitanti dell’aria, rappresentano la materia raffinata della distillazione, quindi purificata, di cui essi sono l’ essenza. Inoltre essi sono sette, un numero che cabalisticamente è lo stato di passaggio da una vecchia condizione della materia alla nuova. Alchimia e Cabala generalmente si accompagnano in questi contesti.
Il concetto fondamentale dello spirito promulgato dai filosofi creatori delle cattedrali e dei palazzi alchemici è quello che ogni cosa possiede un’anima, finanche i metalli, i quali, è scientificamente detto, hanno essi stessi una vita; gli esseri e le cose progrediscono in continui mutamenti e si rinnovano. Questo è codificato nei tre stadi della trasmutazione alchemica: Nigredo, Albedo e Rubedo. Si parte dal concetto che da uno stato torbido, sporco, putrido di un elemento o d’un insieme in amalgama, esso trovi uno stadio di purificazione passando per un setaccio lustrante tramite un percorso in cui ne viene tratta l’ essenza pura e cristallina, monda della sozzura iniziale. La prima operazione è la Nigredo, in cui la forma primitiva, sporca e scura viene fatta fermentare; passando per l’ Albedo, il frutto della fermentazione è purificato e, distillato nella sua forma più pura, col fuoco alchemico, nella Rubedo. Queste operazioni implicano vari aspetti della natura, così come lo stato della coscienza umana, ed è questa la forma che ci interessa: la trasmutazione dell’ anima è l’implicito oggetto del portale, che è reso allegoricamente in bassorilievo nelle strombature interne di cui si è cominciato a parlare precedentemente, con una serie di figurazioni semplici ed esplicite che sono alla base elementare del linguaggio alchemico.
Il portale è rappresentazione dell’ “Albero della vita”, che in ogni cultura è l’ essenza di ogni relazione tra gli elementi. È identificato con la quercia e rappresenta la
materia prima, da cui pendono come frutti i dieci mondi conosciuti della Tradizione, così come dieci sono i blocchi che compongono i pilastri del portale e comprendono il ciclo della “Grande Opera”.
A loro volta ogni pilastro, a parte la prima figura alle base, è diviso in due sezioni concettuali, che nella totalità d’ insieme sono quattro, vale a dire i quattro elementi della natura. Una natura che risulta in origine ostile e caotica, come già detto per il primo stato della materia, e che è rappresentata nella prima figura in basso in ciascuna delle strombature, dal cosiddetto “Baphomet Alchemico” (figura 7) che, a dispetto di quanto su questa figura negli anni si sia favoleggiato, altro non è che lo stadio grezzo dell’ Opera: il Caos, la sostanza primordiale che va purificata. La sua figura è quella di diavolo enigmatico assiso al trono, il trono dell’ universo e del nostro mondo, il “Daemonia Mundi”: “Totus mundis in maligno (mali ligno) positus est; tutto il mondo è basato sul diavolo (sull’ albero del male), poiché “sic malum crevit unicum in omne malum.”
Troneggia infatti alla base del portale, appollaiato alle radici dell’ albero sacro, e come un rapace ne conserva le caratteristiche. Egli non è Satana, ma Lucifero re, non ancora caduto negli inferi in cui fu poi relegato, e sulla cui fronte ancora brilla lo smeraldo del santo, la dura pietra che intagliata, divenne poi la coppa del Graal. In capo, in forma di candela dai tre fuochi, reca infatti la fiamma della Conoscenza non ancora rivelata. Egli è la pietra angolare della costruzione, l’ elemento portante su cui tutta la struttura architettonica prende forma; è Pietro, su cui Cristo istituì la sua “Chiesa”. In lui ogni elemento vive; e non esiste positivo o negativo perché egli è uno con dio. In lui ogni elemento esiste, ma in disordine, e bisogna dare ordine al Caos, seguendo l’ esempio di ciò che fece dio all’ inizio dei tempi, separando i quattro elementi: fuoco, aria, terra, acqua. Più esattamente la separazione del fuoco e dell’aria, dalla terra e dall’ acqua, così come figura anche sul portale di San Giovanni; infatti troviamo rappresentati sul pilastro di sinistra i primi due elementi, e su quello di destra i due rimanenti.
La lettura in tal senso può esser fatta in senso orario, cominciando dal bassorilievo giù a sinistra, in capo al Baphomet, proseguendo verso l’ alto, e da lì a destra, scendendo verso le radici dell’ altra strombatura. Più correttamente, vista l’impostazione separata fatta dall’artista, sarebbe meglio condurla sui due pilastri in forma scissa, cominciando in entrambi i casi dai rispettivi Baphomet. Dunque in basso a sinistra, nel primo bassorilievo troviamo, dallo scaturire dalla fiamma luciferina, due figure primigene dello stato liquido della materia primordiale (figura 7 e 8) che, sublimata dal calderone alchemico, dà origine allo stato elementare del fuoco, con le due salamandre alate (figura 9), fenici dalle ceneri, che vengon fuori come distillato, i cui residui fuoriescono in gocce superflue (la figura 10 evidenzia l’ intera sequenza descritta). Il profano a questo punto potrebbe incorrere in una serie di fraintendimenti se non si fa luce su di un punto rilevantissimo: mentre i quattro elementi son protagonisti in questo caso di una teoria di movimento, vita e azione universale, essi stessi, in altre condizioni, sono allegorie più complesse di operazioni di trasmutazioni più avanzate e vanno viste con un occhio diverso da quello utilizzato in questa analisi; un’aspetto che non possiamo approfondire, ma di cui dobbiamo puntualizzare su un’elemento essenziale, senza il quale non potremmo delucidare neppure sulle parti più semplici: la distinzione tra fuoco elementare e fuoco alchemico. Il fuoco elementare è quello prodotto da combustibili ordinari, ed è usato dallo spagirista, che è colui che pratica la Spagiria. In senso volgare l’ Alchimia è identificata con quella che in realtà è la Spagiria, vale a dire un’ attuazione pratica di trasmutazione degli elementi, che non trova però riscontro con il perseguimento dell’ idea alchemica, che in realtà è una filosofia la cui pratica vive nell’essenza intrinseca della natura stessa.
Diversamente, il fuoco alchemico è l’elemento fondamentale d’ogni operazione di trasmutazione e cambiamento, ed è un fuoco filosofico, principio della distillazione purificatrice da cui si trae l’essenza delle cose.
È il fuoco che non brucia, la polvere di sole che in se racchiude l’energia, monda della materia che consuma e distrugge, tanto è vero, che la si potrebbe tenere tra le mani senza scottarsi. Nel caso della nostra illustrazione le salamandre alate sono elemento fuoco, nate dalla distillazione prodotta dal fuoco alchemico sprigionato dalla natura caotica che mette l’ordine nella propria struttura.
Proseguendo la lettura ascensionale del portale ci soffermiamo sull’ elemento scultoreo successivo (figura 11): una stana faccia sulle cui guance, due pennacchi di barba, come fossero ciuffi d’ erba, si dipartono riccioluti aprendosi in curve laterali. La sua fronte è coronata da un diadema floreale a cinque punte: è una figura bafometica che però identifica aspetti completamente diversi dal vero Baphomet così come descritto prima. Quello in questione è il volgarmente detto Bafometto, legato all’aspetto più popolare e folcloristico. Quando il Vaticano e il regno di Francia vollero giuocarsi l’ordine dei Templari, inquisendoli per eresia, apostasia e quel che ne consegue, la maggiore accusa loro addebitata fu quella di adorare in riti osceni, una testa mozza di uomo barbuto, attribuendo a questo personaggio il nome di Bafometto. Questa testa-idolo molti la identificavano in Gesù, a beneficio dei templari, però chi mosse loro accusa lo fece al solo scopo di infamarli, cosi che portando avanti la tesi di blasfemia, vide nel capo mozzo il diavolo, Maometto e in ultimo il Saladino, colui che bisognava schiacciare piuttosto che adorare.
Quest’icona barbuta tuttavia, ha collocazione in ogni dove sui monumenti medievali e rinascimentali, finanche nell’arte popolare, dove in realtà trova la sua vera origine. Considerando infatti le maschere apotropaiche, si nota come questa figura sia assimilabile ad esse, che nascono come forma artigianale per rappresentare le divinità ctonie della natura, spiriti a cui il popolo, pur cristianizzato, resta legato fino ai giorni nostri; retaggi dunque d’un passato arcaico che ci rappresenta. Deformi ed orrende alla vista, perché dissuadessero gli obbrobri maligni dall’avvicinarsi ai posti che esse preservano: case, giardini, stalle, e luoghi frequentati da chi le ha messe a vigilare. Queste forme hanno retaggi culturali ben più antichi del Medioevo e della Grecia classica stessa, ed il loro senso originario si è mantenuto nella tradizione contadina. Questa faccia barbuta altri non è che la Natura stessa, intesa come generatrice di vita, anzi ri-generatrice, in quanto nella brutta fattezza di quell’espressione che in volto reca, vi è implicito il senso della morte, la morte che la natura deve subire perché ritorni alla vita: in questo caso è ben evidente il ciclo stesso delle stagioni, con la letargia invernale che rigenera e dona energia alla vegetazione che riprende florida in Primavera. È questo il significato dell’ “Uomo verde” così come viene anche chiamato. I cinque scaglioni del suo diadema sono i cinque stadi del ciclo naturale della Terra. Egli è Pan, è il Tutto, è il re sacro e sposo della Dea, che ogni anno muore e si rinnova, Giano bifronte, Dioniso, Bacco, l’Uomo dei boschi alchemico, essenziale elemento in ogni completa operazione .
Il nostro bassorilievo lo troviamo riprodotto anche nei capitelli della chiesa degli Alemanni a Messina, sotto due forme diverse: una è perfettamente identica alla nostra (ovviamente con le dovute differenze stilistiche, figura 12),
mentre l’altra è rappresentata in modo meno stilizzato, anzi, riproduce in chiave realistica un viso barbuto (figura 13, accanto alla quale si nota nuovamente riprodotta, la rosa canina) simile a quello della Veronica sacra.
Seguendo l’ analisi del nostro soggetto, sul portale di San Giovanni, notiamo come esso poggi su di una base sporgente, esattamente come se fosse posto su di un altare, proprio alla stessa maniera di come avrebbero fatto i Templari con il loro idolo. Questo elemento orizzontale non spezza lo slancio verticale del pilastro; semplicemente divide la scena sottostante, dell’elemento fuoco, da quella dell’aria. Così come il fuoco nasce da una sublimazione, così anche l’aria: dalle orecchie fauniche del re verde fuoriescono due tralci arborei che con slancio elegante germogliano, trasformandosi in due cornucopie che si incrociano sulla testa sacra, dal cui centro tende verso l’alto un terzo tralcio, che passando per l’incrocio dei due corni, procede verso l’ alto, dove un seme, morto e seccato, s’apre in due dando vita a un’athanor centrale, altro punto di sublimazione, attorniato lateralmente da steli fioriti, che rappresentano lo stato intermedio di tramutazione (notare l’ intera sequenza nella figura 14)
. Il soggetto principale di questa sezione è proprio questo germoglio centrale: Le cornucopie rappresentano le ricchezze materiali che il possesso dello stesso assicura a chi ne comprende il messaggio, ed il loro incrociarsi ad x indica la natura spirituale di questo arricchimento, perpetrato grazie alla sublimazione del nostro soggetto, che più in alto dà vita a tre capolini, tre datteri, frutto della palma, che è considerata l’ albero della fenice, tant’ è vero che dai latini era chiamato “Phoenix” (figura 15). Essi rappresentano la trinità superiore e sono il frutto della coagulazione (coagula) avvenuta dalla dissoluzione (solve) e trasmutazione operata nel calderone sottostante, la cui doppia essenza dell’operazione (Solve et coagula) è rappresentata dai due bacilli che si schiudono lasciando sorgere lo stelo da cui prende forma il germoglio triplice, la cui essenza è identificata nelle due figure alate (figura 16) che rappresentano il secondo elemento della creazione: l’aria. Si noti la differenza tra le salamandre del fuoco e queste silfidi dalle forme leggere, morbide e volatili. Tra loro passa un ulteriore stelo che ripete su di esse la germogliazione di due nuovi soggetti che si diramano ai lati, finendo in due spighe d’un cereale non ben definito, che s’aprono rigonfie e prospere (figura 17). Tra di esse spicca la gemma di bocciolo semichiuso, dal cui interno sale un calice di fuoco dalle tre fiamme, risultato finale della trasmutazione della materia grezza allo stadio ultimo della Rubedo, la Grande Opera. Questa decorazione la si ritrova specularmente, sul lato opposto del portale. È la parte adesso, su cui spostiamo l’attenzione. La colonna destra, così come la sinistra comincia dalla base con la medesima scultura del Baphomet alchemico (figura 18): le sue ali d’ arpìa sono qui più accentuate e spigolose mentre, diversamente dalla sua figura gemella si aprono in alto e lateralmente dei raggi brillanti, come se egli stesso spigionasse luce (Lucifero appunto). Sulla testa coronata, anche qui divampa la triplice fiamma della Conoscenza da cui centralmente diparte un tridente, simbolo dell’ aspetto acquatico (figura 19) che si delinea nel riquadro che procede in alto questa teoria simbolica, sovrastando l’infero re nel suo stato di putredine materica e caotica. Due pesci smilzi e guizzanti caratterizzano l’ elemento acqua, uno di fronte all’altro,
rampanti e rivolti ad un centro che li separa, in cui si trova il bocciolo generatore della sorgente marina, utero di ondina sgorgante nuove stille di vita pur sempre vegetale, direttamente collegato a un calderone alchemico superiore, laboratorio atto alla nuova estrazione di cristallina purezza. Acqua, principio d’ogni cosa e fonte primaria della nascita ancestrale di tutto. Sopra d’essa troviamo, come da struttura tipica del portale, il secondo elemento gemello speculare dei due pilastri: il viso dell’ “Uomo dei boschi (figura 20), come l’altro, posto su di un piano rettangolare, e come il precedente, è congiunzione tra i due elementi principali delle due colonne. La differenza con l’ “Uomo verde” della colonna sinistra è qui però sostanziale per quanto riguarda il suo aspetto funzionale, perché mentre prima egli rappresentava l’idea di sacralizzazione della Natura e di compenso da parte della stessa verso colui che sa leggere e rispettare le sue leggi,
in questo caso invece il Bafometto rappresenta il principio stesso della terra (e della Terra) che traendo sostanza dall’estratto puro dell’ acqua, offre ad esso il proprio nutrimento per creare la vita con l’ albero sacro che nasce e prende forma nel pannello sovrastante. L’ albero della vita appunto (figura 21), che è il portale stesso. Tra l’ “Uomo verde” e questo, vi è un nuovo distillatore, un Athanor gigante ed enigmatico più degli altri ed ha due bracci che sorreggono un drappo. È il vero utero della terra; il crogiuolo dove avviene la trasmutazione dei fluidi delle “Nozze Sacre”: il Dio e la Dea si sono già incontrati nelle due operazioni precedenti, sui pannelli sottostanti. Essi genereranno dalla morte, perché solo se il seme muore, allora soltanto darà frutto.